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venerdì 1 luglio 2016

Vini ad alto contenuto di verità



di Niccolò Desenzani



Spesso, pensando alla mia passione per i vini naturali, mi chiedo quanta retorica ci sia nel mio gusto. Quanto condizionamento dato dall’adesione a un certo concetto del vino; ma anche quanto condizionamento proveniente dal suo prezzo e dal mio potere di acquisto.

Da un lato, onestamente, risolvo la questione attribuendo al mio gusto un alto livello di soggettività e accettando che sia comunque plasmato da tutti i possibili condizionamenti culturali e psicologici che mi caratterizzano, dall’altro, siccome è pur sempre una questione di estetica, di concetto del bello, c’è irriducibile un tentativo di afferrare qualche categoria appena più universale. E dunque, alla domanda perché un vino senza orpelli possa ambire a una maggior bellezza rispetto a un vino costruito con mezzi sintetici mi è capitato di percepire qualcosa che chiamerei verità, contenuto di verità di un vino. È sparare alto, me ne rendo conto, ma pensando alla parola greca aletheia, etimologicamente senza veli, penso che letteralmente il vino vero sia quello senza veli, in qualche modo nella sua forma più spontanea e quindi più essenziale. E poi il vino è dall’uva e quella dalla vigna e quella dalla terra e dal sole e dall’aria. Ed ecco che esser senza veli significa contenere la combinazione di tutti quei fattori, in un artefatto di senso compiuto che mantiene l’informazione al massimo livello di purezza. In giornalismo si parla di fonti primarie dell’informazione e di grado di verità putativa. Ed ecco che ritorna questa parola.
Certi vini sono verità allo stato di bevanda alcolica e credo che il nostro apparato sensoriale sia sufficientemente complesso per cogliere questo aspetto.
E goderne appieno.



Un vino che ha fatto condensare la nube di pensieri in questa piccola narrazione, che ne è emblema passo passo, è la Dorona di Gastone Vio, contadino e vignaiolo in quel di Sant’Erasmo nella Laguna di Venezia. Non solo egli ha custodito questo vitigno, semi abbandonato negli anni ‘60, mantenendo in vita le viti già in attività quando le comprò il padre di suo suocero (parliamo di viti fino a 130 anni), ma ne ha una cura meticolosa e un rispetto religioso, riducendo il suo apporto quasi unicamente agli aspetti meccanici manuali della coltura, osservando le piante in salute e in malattia senza quasi intervenire, ma anzi aspettandole anche dopo l’apparente morte vegetale “perché le viti a piede franco a volte si riprendono”.




Ogni trattamento cessa ai primi di luglio per garantire che nessuna traccia arrivi al vino, che è il frutto di operazioni manuali regolate dall’esperienza e la sensibilità di Vio, portando a mosto uva pura e sana. Il vino conoscerà solo il vetro in ogni fase, per finire in bottiglie tappate a corona quando il momento è propizio per quello che vuole essere un vino fermo, ma ha sempre un filo di elegante carbonica a testimone di vitalità.
La dorona porta un profumo di fiori bianchi schiacciati, forse un po’ di torba dolce. In bocca è equilibrato nelle componenti acide, saline e gliceriche. Un vino freschissimo e liscio, acido e rotondo al tempo stesso, che si beve con estrema facilità anche grazie a un nerbo che direi proprio minerale. Pur non essendo aromatico, il vitigno è caratteristico con sentori fini fini di zucchero grezzo di canna che ritornano al palato. Riconoscibile.
Questa facilità del liquido a divenire parte del nostro corpo, la gentilezza che riesce a esprimere, ne permettono una lettura nitida e si afferra così quel senso di vino senza veli, ad alto contenuto di verità.

Ah che bontà!



11 commenti:

  1. L'idea che mi sono fatto anche confrontandomi con te Nic e i ragazzi del Bar è che la questione non è poca so2 o tanta ma niente so2 oppure si so2 anche in razione omeopatica.
    Piccole dosi di So2 anche in fase di ammostamento sembrano influenzare il vino in maniera definitiva (per chi cerca la purezza del succo) che nessun affinamento può far regredire. Compaiono durezze e irrigidimenti che bloccano l'espressività del vino.
    Luigi

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  2. E invece, Luigi, io penso che proprio l'assenza di SO2 aggiunta, sollevi un velo fra posto e il vino. Paradossalmente la vinificazione in assenza di solfiti può solo apparire più pura e generare un vino più "vero" nel senso citato da Niccolò ; a mio parere invece , la biochimica che si svolge in assenza di solfiti aggiunti ( che non sono mai assenti, perché li produce la fermentazione) produce una serie di stimoli odorosi piuttosto riconoscibili e indipendenti dal luogo e dal vitigno. La vinificazione così fatta in realtà mi parla solo del metodo di vinificazione, o al più, dell'idea di vino del produttore. Il produttore diventa così un artista e non più il mezzo attraverso il quale una tradizione e un luogo si manifestano. Sempre secondo me, e sempre pronto a cambiare idea. Grazie a Niccolò per la segnalazione di questo vino .

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    1. Grazie Fabio del commento. Non è scopo del post dare adito alla solita battaglia solfiti sì, solfiti no. Tuttavia vedo una falla nel tuo ragionamento, che è quella di considerare la solforosa impercettibile, a differenza di quanto tu affermi, che sia la sua assenza ad essere percepita. Entrambi i processi, in quanto tali, connoteranno il futuro vino. Però la mia esperienza dice in modo netto che un vino sano senza solfiti (arduo e talvolta impossibile da ottenere) riesce a esprimere delle tonalità che non sono ritrovabili nei vini a medio/basso utilizzo di so2. E non sto parlando di tonalità indipendenti dal vino in assaggio, ma proprio declinazioni dalle sue proprie caratteristiche. Ho in mente i vini riusciti di Cornelissen, alcuni alsaziani come Schueller, i vini di Corino e qualche altro, non frequentissimo, esempio di questa percezione. E ti assicuro che fra questi tre vini citati non sento molti elementi omologanti. Comunque è la mia percezione, con margini di errore non trascurabili. Epperò non si può dire che l'assenza di so2 in generale "veli" di più della sua presenza. Poi uno può trovare che una donna ben vestita ispiri di più della stessa nuda, ma lì sì che sono gusti.

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    2. Caro Fabio,
      non ho alcuna certezza ma leggo nella tua posizione la fiducia un po' positivista nella capacità dell'uomo di "migliorare" con la tecnologia (ancorchè moderata) un aspetto che dovrebbe essere "naturale". Questa posizione mi pare contraddittoria e molto in bilico fra quanto può essere buono per esprimere il territorio e quanto è eccesso di intervento.
      Fermo restando che una piccola riconducibilità e riconoscibilità fra i vini senza so2 la si ritrova (sicuramente meno appiattente delle fermentazioni a bassa temperatura, dei lieviti secchi, del legno nuovo), non mi è mai capitato di non sentire il vitigno e il territorio eventuali perdite sono compensate da una incredibile espressività e complessità del vino.
      Cornelissen, Corino, Enrico Cauda, Hausherr, Cerruti, Le Moing (e sicuramente altri che ora non mi vengono in mente) secondo me fanno vini di territorio, profondi e ctonici grazie all'assenza di so2.
      Anch'io sono sempre pronto a cambiare idea.

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    3. Cristiana Galasso e Nadia Verrua

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  3. Chiedo venia per il ritardo della mia replica. Provo ad abbozzare una risposta a Luigi e Niccolò, ma anche a Vittorio che suggerisce come esempio i vini deliziosi di Nadia Verrua ( perdonatemi l'aggettivo, ma mi sembra il più adatto ). Concordo con Niccolò nel dire che i vini sani senza solfiti esplorano zone dello spazio espressivo del Vino normalmente interdette ai vini con i solfiti. Il mio problema è che quelle zone quasi sempre non mi "interessano" , ossia non generano in me quel senso di piacevolezza che credo sia il vero scopo di ogni vino. É proprio la percezione della piacevolezza che solleva la prima questione: Luigi dice che il senza solfiti - se ben eseguito - è meno impattante dei lieviti secchi, delle basse temperature in fermentazione e del legno nuovo. Posso essere d'accordo sul legno nuovo, sebbene esistano rari esempi di vini affinati in legno nuovo che si esprimono con grazia e naturalezza, ma sono per lo più costosissimi e, insomma, diciamo che non fanno statistica ( Leroy, DRC. ...) . Per quanto riguarda i lieviti secchi io penso che si dia troppo peso a questa questione: una fermentazione spontanea ben gestita non fa differenza con una attivata da un lievito secco ( se questo non è aggiunto di enzimi che lavorano sui precursori ). La differenza viene piuttosto dall'uso della solforosa, che con il suo potere antisettico limita il lavoro di quelle famiglie di lieviti che portano quelle " complessità " che il viticoltore naturale cerca e che, invece, per quelli come me, sono solo espressione della fisiologia di quei lieviti a qualunque latitudine. Cioè, per voi quella complessità porta piacevolezza, per me no, perché limita l'espressione dell'interazione posto-vitigno. Quanto alle fermentazioni a bassa temperatura, per me non sono basse, sono le altre ad essere alte: 16-18 °C non mi sembra bassa, è molto semplicemente la temperatura media di una buona cantina. E niente affatto omologante : è vero semmai il contrario. E quindi, ha ragione Luigi quando dice che io ho una fiducia positivista nella capacità di intervento dell'uomo. Aggiungo che bisogna avere un idea di vino prima di farlo. E questo solleva un'altro problema molto importante per me, e immagino anche per voi: che è quello sollevato da Armando Castagno con il suo intervento suggestivo, ma scivoloso, sulla definizione di vino naturale. Lui dice che fra controllo e interventismo corre la differenza che passa fra antropologia ed eugenetica: non potrei essere più in disaccordo. Per esempio, aggiungere SO2 in fermentazione è controllo o interventismo? Filtrare è controllo o interventismo? Bloccare una malolattica è controllo o interventismo? Ma soprattutto, il NON fare è controllo o interventismo? Non fare un travaso dopo la malolattica, lungi dall'essere sottrazione, è interventismo pesantissimo: quasi sempre sarà foriero di odori omologanti e spiacevoli. Il diavolo è nei dettagli, e i dettagli sono fondamentali. Quanto ai vini della Nadia Verrua, o della Giovanna Morganti ad esempio, che io bevo con grande piacere, ribadisco una mia idea: Le Trame e La Bandita hanno in comune troppe cose per essere vini così distanti come vitigno e pedoclima. Certo io probabilmente assegno troppo peso alle somiglianze e poco alle differenze, e voi il contrario, naturalmente: ma questo attiene all'estetica e alla nostra idea di piacevolezza di un vino.
    Un caro saluto e spero di incontrarvi presto davanti a qualche buon bicchiere.

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    1. Grazie Fabio per il tempo dedicato. Bello che esistano ancora delle discussioni fuori da Facebook ;-)
      Penso sinceramente che abbiamo sviluppato gusti differenti.
      Purtroppo non ho mai bevuto DRC o Leroy, in compenso ho frequentato vini senza so2 con abbastanza assiduità. E devo dire che anche lì ci sono dei fuoriclasse, proprio quelli in cui la naturalità gioca quasi unicamente in positivo sul gusto, in modo simmetrico a quanto dici che alcuni vini tecnici eccellono proprio perché riescono a non far percepire i mezzi per valorizzare al massimo il fine. In questo post non ho parlato di solforosa, e pochissimo di come sia vinificata la Dorona: mi sono concentrato sui due estremi: il "luogo" e il gusto. Traendo spunto dall'intervento di Armando Castagno ho scritto un post sulle pagine di questo blog. Io credo che il suo spunto sia interessante proprio perché in qualche modo suggerisca due linee di estetica del vino e quindi due interpretazioni del fare e del gustare il vino. Ovviamente aprendo al più ampio spettro di sfumature.
      Un elemento che mi permetto di suggerire (non è una cosa mia originale, si intenda) è che il vino naturale necessita strumenti interpretativi, anche per la piacevolezza, diversi dal vino più gestito tecnicamente e chimicamente. Se beviamo una delle due tipologie con l'ottica dell'altra, ne verrà sicuramente penalizzata. Qualche volta poi alcuni vini tentano di quadrare il cerchio e essere un buon compromesso. Anche in questo caso credo ci possa essere un'eccellenza.
      Mi concedo però una boutade: come fai a non sentire un espressione di purezza su luogo annata clima in Cornelissen o Barla di Corino?
      Infine per dire che non c'è ideologia a oltranza, credo che anche fra i vini "più tecnici" vi siano espressioni di onestà e verità. Ma ecco che alcuni canali gustativi vengono imbrigliati nella solforosa e alcune mineralità e acidità non avranno mai lo stesso tipo di rotondità che offre una lavorazione senza. Gli equilibri raggiunti nei due casi sono semplicemnte differenti.
      D'accordo con te che dovremmo trovarci a fare queste amene chiacchiere e altre davanti a un buon bicchiere! A presto

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  4. Caro Fabio,
    grazie per essere ripassato al bar.
    In linea di massima e con una visione soggettiva direi che:
    1)16° tenuti costanti con macchine frigorifere, è innaturale e a detta di molti enologi molto più impattante dei lieviti secchi.
    2)bloccare la malolattica è interventismo, senza dubbio, perchè per farlo bisogna filtrare sterile e solfitare in abbondanza, due attività che mi paiono indiscutibilmente "pesanti".
    3)solfitare in qualunque fase della vinificazione porta a vini differenti anche molto da quelli che otterresti se non lo si facesse (sperimentato più volte su partite identiche con o senza so2) quindi per dirla alla Le Moing un vino naturale non può contenere solfiti esogeni (un po' estrema come posizione)
    4)il non fare è controllo di sicuro non è interventismo
    5) filtrare è interventismo (talvolta inevitabile)
    6)mi sfugge il motivo per cui non ti piace che alcune famiglie di lieviti si esprimano nei vini, il vino è per definizione e di fatto una "espressione della fisiologia di quei lieviti" quindi escluderne qualcuno è un atto di controllo deciso e unilaterale.

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  5. Caro Niccolò, vorrei replicare partendo da un punto, anzi da due, sui quali evidentemente siamo d'accordo. 1) i vini senza solfiti ( ovviamente parliamo di vini buoni) esplorano zone dello spazio espressivo di un vino che normalmente sono precluse ai vini convenzionali, 2) usare lo stesso paradigma per leggere un vino convenzionale e uno naturale senza solfiti è un errore grossolano, perché così facendo non saremo mai in grado di cogliere la bellezza di uno o dell'altro. E qui mi riallaccio a un'idea che ho maturato nei miei ormai 40 anni di dedizione al bicchiere : avere un approccio analitico alla fruizione del vino è devastante. Analizzare, sezionare, scomporre, misurare la performance espressiva di un vino, per quanto possa essere utile, forse anche indispensabile, a chi vuole approfondire l'argomento, finisce per diventare un esercizio sterile dove l'oggetto della disamina non è più il vino, ma l'ego del degustatore, del quale ci interessa pochino. Come dice Ludwig Wittgenstein al termine del Tractatus ( 6.54):
    " colui che mi comprende, infine riconosce le mie proposizioni insensate, se è salito per esse, su esse, oltre esse. Egli, per così dire, deve gettare via la scala dopo esservi salito. Egli deve superare queste proposizioni; allora vedrà rettamente il mondo "

    Di fronte al vino, analogamente, bisogna mettersi in un approccio di apertura e di accoglienza, bisogna gettar via la scala, avendo avuto cura di imparare ad usare le proposizioni precedentemente acquisite.

    Quanto al vino Magma di Cornelissen, per quanto mi sia sforzato all'apertura e all'accoglienza, non riesco ancora a vederlo come un vino. Mi appare, piuttosto, come un'opera d'arte astratta dove - così come nei tagli di Fontana - la tecnica di produzione ( il taglio nella tela) diventa non il mezzo attraverso il quale esprimersi, ma l'espressione stessa. Poi è anche buono, ma non smuove in me nemmeno l'ombra di una piuma. Trovo molto più coinvolgenti i vini, quelli si vini e non opere d'arte, di Nino Barraco.

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  6. Caro Luigi , per me è veramente un piacere passare di qui, leggervi e chiacchierare con voi. Solo il tempo mi impedisce di essere qui più spesso. Ma vengo alle tue puntuali osservazioni. Per me interventismo significa intervenire anche quando non necessario, significa intervenire indipendentemente dall'obiettivo enologico . Dunque bloccare la malolattica non è interventismo se serve a mantenere il vino in un equilibrio funzionale all'obiettivo prefissato: prova ad assaggiare Voglar 2013, così ci capiamo meglio. Il Non-fare per me non è controllo; l'idea di controllo contiene l'idea di osservazione ( per noi irrimedabili razionalisti anche l'idea di misura, ohibò) e, necessariamente, l'idea di azione : per esempio, vedo che il vino si sta muovendo In una certa direzione e lo accompagno con tutte le tecniche a mia disposizione verso il suo punto di equilibrio ( un sistema fisico necessariamente si evolve verso un punto di equilibrio, 2° principio della termodinamica, se ben ricordo) anche a costo di dargli qualche colpetto quando è necessario. Il Non fare è l'opposto del controllo e può avere un impatto devastante . D'altra parte noi tutti siamo qui a parlare di vino perché decine di generazioni di viticoltori hanno sperimentato, osservato, misurato, controllato , preso decisioni e contro azioni, rifuitandosi di lasciare fare solo alla natura; rendendo così possibile la nascita di vini buoni, molto buoni e in alcuni casi paradigmatici, definitivi. Così da stuzzicare il nostro senso estetico e trascinarci fin qua. Un abbraccio.

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