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mercoledì 17 giugno 2015

Distilleria Quaglia. Distillati di qualità (e non solo) in città.


Camminando per la città, sempre più spesso capita di percepire la voglia genuina di sperimentare prodotti d'eccellenza, il bisogno di andare oltre il clichè dei locali alla moda tutti irrimediabilmente  uguali nella concezione del locale stesso e spesso con prodotti molto simili tra loro. 
Eccoci a parlare allora della Distilleria Quaglia, lo spaccio/dinner bar, nato un paio di mesi fa nella fucina di eventi e talenti che sta rapidamente trasformando il quartiere Vanchiglia a Torino.
Il locale si propone innanzi tutto come punto di vendita diretta dei prodotti di casa Distilleria Quaglia, azienda che opera dal 1890, immersa tra l'astigiano e la collina torinese e che si trova capitanata ormai dalla quarta generazione di famiglia. Il catalogo dei prodotti proposto dall'azienda è impressionante si va dalla grappa nelle sue trenta e passa varianti, ai liquori e amari tradizionali, molto buono quello al chinotto, ho avuto anche occasione di assaggiare un' ottima vodka, davvero lineare e pulita.
Punta di diamante, inoltre, è il Vermouth del Professore che nella versione rossa è  l'unico vermouth al mondo creato a partire da vini bianchi e rossi 100% italiani, con aromatizzanti dati al 100% da vegetali e prodotti internamente all'azienda che matura per sei mesi in piccole botti di rovere andando a ricalcare il percorso di un identità squisitamente torinese.

Tra le altre cose mi ha molto colpito anche la determinazione del barman nel voler legare i cocktails al territorio, studiando la tradizione e tentando di rinnovarla. Per quel che riguarda le birre, tengono la linea del birrificio Have a Nice Trip, ma comunque è un locale che va a toccare altre corde, quindi non parlerei molto di birra, buona anche la selezione di vini e la cucina mi è parsa interessante, tuttavia non ho avuto modo di approfondire.Un locale da tenere sicuramente in considerazione a Torino se siete amanti del buon bere e volete scoprire qualcosa di diverso. [deLa]

Distilleria Quaglia, via Giulia di Barolo 54, Torino, Tel. 011 1950 0519
https://www.facebook.com/distilleriaquaglia

lunedì 15 giugno 2015

Birra Montegioco, La Mummia 2011.


Ci sono birre a livello mondiale che sono ammantate da un'aura quasi mistica, birre perdute nel tempo, che hanno fatto la storia oppure che seguono dei percorsi produttivi particolari che le rendono uniche. La Mummia del birrificio Montegioco è una di queste. Nasce come esperimento di birra acida ad opera di Riccardo Franzosi, la base per il primo esperimento fu la Runa messa in botti che avevano ospitato la Creatina di Elisa Semino (Azienda Agricola La Colombera), ma sembrava che l'esperimento non riuscisse ad intraprendere la forma desiderata, così dopo ripetuti assaggi, la birra finì nel dimenticatoio. Fu proprio mastro Kuaska in una delle tante visite al birrificio a volerla tirare fuori dal limbo  in maniera quasi casuale dopo diverso tempo, finalmente la birra era pronta e il nome venne fuori spontaneamente, la Mummia era uscita da quella botte che era diventata un vero e proprio sepolcro , pronta a conquistare il mondo.
Da allora la ricetta è stata ritoccata e la birra  in bottiglia è diventata il prodotto dell' assemblaggio di diverse barrique (ex Barbera Bigolla di Walter Massa) contenenti Runa, Rat Weizen e Tibir. Nel bicchiere si presenta di un bel oro antico, la schiuma è bianca, fine e, sorprendentemente, persistente.
Al naso, si presenta molto fine ed elegante con fiori di campo, frutta a polpa bianca, agrumi e una nota speziata a cui fa eco il passaggio (prolungato) in botte che porta con sè aromi rustici, coperta di cavallo ed una nota lattica.
In bocca si presenta di corpo esile, l'attacco è caratterizzato dall'acidità lattica, limone a cui però si affiancano da subito sentori floreali, pepati e di fieno. Il finale è secco e leggermente astringente e ripropone la nota acida che regala al percorso gustativo un taglio molto rinfrescante e ne  facilita la beva. Il retrogusto è lungo e caratterizzato da una sensazione leggermente legnosa e fruttata.
Una birra eccezionale, di non semplicissima reperibilità, che proietta questo birrificio nell'olimpo delle birre di caratura mondiale, la cosa che colpisce immediatamente è la semplicità con cui si lascia bere nonostante una notevole complessità. Abbinamenti: pesce alla brace, pesce crudo, formaggi freschi oppure il vostro semplice godimento. (deLa)

venerdì 12 giugno 2015

Orti.ca, una piccola grande oasi a Vercelli

di Vittorio Rusinà

Io, Vercelli, non sapevo che fosse bella, e che nel suo centro, in un piccolo vicolo medioevale ci fosse un'oasi di frescura, di relax e bontà. Ci sono voluti tanti anni, poi un giorno qui si trasferisce Sara Rocutto dalla Mitteleuropa e Igiea Adami pensa bene di invitarmi ad una passeggiata ornitologica nelle risaie della sua tenuta agricola. Una addizione di coincidenze su un piano temporale congeniale.



"I mobili, le stoviglie, beh abbiamo rovistato nelle cascine di famiglia" dicono Anna e Lucilla, le giovani proprietarie del locale, più tardi una zia di passaggio in bici confermerà. Mi piacciono molto i piccoli bicchieri da osteria antica sul tavolo, Sara dice che da lei sono i goti "i bichieri da ombra". Bello vedere in carta tante ottime birre artigianali, i vini naturali di Francesco Brezza, di La Casaccia, di Giorgio Barovero (è un amico di Iuli mi dicono le ragazze, stupite che non lo conosca, ma come tu sei o non sei @tirebouchon).



Nel mio piatto: riso Carnaroli integrale di Naturalia con zucchine e nasturzi al basilico. A seguire il roast-beef "biodinamico" di Tenuta Migliavacca (una super-rarità), gli splendidi formaggi della Fattoria della Capra Regina di Fubine (AL), il pane fatto in casa, la crostata di marmellata di zucca.



Piccoli vasi di erbe e fiori, tre tavolini all'aperto nel vicolo ricco di ricordi e di storie antiche, quasi un caroggio o una calle. Bello passare del tempo qui, senza fretta. Orti.ca già stai nel mio cuore.




foto by Sara Rocutto

Orti.ca, Vicolo Croce di Malta 4, Vercelli

giovedì 11 giugno 2015

Il Galantuomo 2010, Collecapretta, barbera Igt Umbria


Come un tuffo nelle ciliegie, quelle scure, quasi nere, dolcissime, profumate che macchiano la bocca e le mani.
E poi seta e accenni di lievi spezie.
Intensa, quasi untuosa, succosa spremuta di uva.
Potente di alcoli e zuccheri complessi, si gioca la sua beva (comunque piacevole) sull’immediatezza e croccantezza del frutto, forse non è un vino a la page (ora che se non ci sono acidità siderali non si beve più nulla).
Di certo è un’esperienza che traghetta verso i vini “edibili”, appaganti come una bibita piacevolmente edulcorata, un vino forse antico (ricorda certe Barbera contadine, quasi dolci, dense, da suggere con pazienza e avidità).
Delle Barbera nordiche non ha la vena acida ma qualche sua strana alchimia interna la rende equilibrata nel suo squilibrio.
Qualche nota di distillato si insinua nel finale.
Ora scendo in cantina a vedere se ne rimane ancora una!
E non sapete quanto mi pento di non averla inserita a #barbera3!
Kempè

Luigi 

mercoledì 10 giugno 2015

I “non spazi” * e la narrazione del vino


Ovvero dell’aporia della territorialità estrema che si invera nel nulla assoluto.
 






















E’ un po’ che penso, almeno ogni volta entro (virtualmente) in facebook o instagram o twitter o linkedin o in questo blog,  al fatto che il vino, in particolare quello “minoritario”, chiamatelo se volete “naturale”, abbia eletto come bacheca principale per la comunicazione e dibattito i moderni tazebao 大字报 virtuali.
Questi “non spazi” immateriali, liberi, pervasivi sono uno strumento potente e relativamente democratico, gratuito e disponibile per chiunque, in assenza di fondi e uffici comunicazione, abbia qualcosa da comunicare.
Il movimento degli appassionati e dei produttori di vino “naturale” ha da subito cavalcato l’onda, intrecciando, come se tutte queste piattaforme fossero un unico “testo” anzi un “ipertesto” infarcito di link, le proprie narrazioni su e del vino.

- Ciò che mi ha colpito in primo luogo è che questo movimento ha da sempre avuto come obiettivo la rinascita del territorio (pensiamo alla “Renaissance des Appelations” nata in Francia ad opera di Nicolas Joly), per mezzo della terra, della sua vitalità e del fare artigiano in opposizione alla concezione a-territoriale, business-oriented della viticoltura agro-industriale (o agro-eno-tecnica).
La novità è stata quella di avere nei propri protagonisti e fiancheggiatori delle persone laiche che invece di abbandonarsi ad un rifiuto luddista e antimoderno, hanno fatto proprio e usato per primi
 e forse meglio di altri, le risorse delle nascenti piattaforme web, le quali prima di essere degli strumenti di satana, sono delle tabulae rasae da riempire di contenuti.
Il tentativo (cosciente o incosciente non saprei) è stato, e qui compare netta l’incredibile e irriducibile differenza fra web e produttori naturali, quello di comunicare, raccontare un oggetto reale, locale, unico, irripetibile, solido: il territorio e la sua espressione enoica attraverso il nulla conclamato dei bites, della rete, i non spazi di cui accenna F. Bonami.
Un ossimoro, un controsenso che ha dato frutti e ha creato una grande quantità di luoghi virtuali ad alto contenuto culturale e ha stimolato confronti fra pari (questa estrema uguaglianza dei frequentatori del web è la causa del maggiore scontento e livore da parte delle caste dei giornalisti e degli enotecnici soloni a cui non va proprio giù di essere rintuzzati e contestati da “carneadi” senza credibilità).

Gli “spazi” hanno avuto voce grazie ai “non spazi”

- Ciò che mi ha colpito in secondo luogo è che l’uso dei social network, al di là delle preferenze soggettive, è quasi sempre multiplo, contemporaneo e le narrazioni sono infarcite di link ipertestuali che creano una galassia di riferimenti e di percorsi di senso.
Solo la rete ha dato la possibilità, sempre sognata da parte dei narratori ma irrealizzabile con il solo hardware (carta e penna) di costruire un’opera aperta, infinita, infinitamente modificabile, democratica, libera.
Un sogno realizzato?
Una babele in cui il senso si perde nella proliferazione parossistica dei contenuti?
Non saprei, di sicuro è un’opportunità da sfruttare sino in fondo (sempre che ci sia un fondo).
- Ciò che mi ha colpito in terzo luogo è che sui social network e sui blog indipendenti (non i banner, quelli sì che sono biechi mezzi pubblicitari) la comunicazione dei contenuti anche commerciali è fatta con parole, strategie diverse da quelle tradizionali degli uffici di comunicazione. C’è meno professionalità, meno neuro marketing e più ingenuità e curiosità che cerca appagamento e argomenti credibili e ben raccontati.
E’ anche vero che ormai ogni nostro “viaggio” sulla tastiera è tracciato e le pubblicità che appaiono sui banner sono sempre costruite sui nostri interessi, ogni medaglia ha il suo rovescio.

*il termine “non spazi” riferito a facebook, instagram e twitter l’ho letto in un articolo di Francesco Bonami “Davanti a una sua opera ci si chiede non cosa è, ma dove siamo” su La Stampa n°146, pg 25, Torino, 28 maggio 2015 e l'ho prontamente copiato e storpiato.

lunedì 8 giugno 2015

Il professor Franz Egger e il sidro perduto ( e forse ritrovato )

di Tincati Daniele



La storia di questo scritto inizia la scorsa estate, quando acquistai, più o meno distrattamente, una bottiglia di sidro alla mela cotogna, talmente buono che ne parlai qui al Bar.
Purtroppo la bottiglia ha stazionato in cantina fino ad inizio anno, comunque almeno fino a dopo il mio ritorno in Alto Adige per la fine dell’anno.
Non ho avuto modo quindi di ricercarlo ancora, almeno fino a qualche settimana fa quando, pianificando un weekend in zona, mi è tornato in mente.
Cerco allora di reperire il numero di telefono del produttore, e lo contatto.
Io: “Buongiorno, ho assaggiato il suo sidro alla cotogna, molto buono, sarò in zona tra un paio di settimane, ha delle bottiglie da vendere ? “
Lui: “Mi fa molto piacere, guardi, ormai sono alcuni anni che non lo faccio più, dove lo ha trovato?”
Mi si è gelato il sangue.
Avevo beccato un altro vino estinto.
Mi è già successo ultimamente, e non solo a me.
Poi, la luce :
Lui: “ultimamente stanno cercando di convincermi a riprendere, può darsi che quest’autunno ricominci. Comunque se vuol passare a fare due chiacchiere, volentieri, le spiego la produzione, mi sono rimaste alcune bottiglie, se ne vuole qualcuna gliela posso dare”.
E cosi, un sabato mattina di fine maggio, incontro il Prof. Franz Egger, insegnante alla scuola di agraria di Egna, che coltiva mele a Salorno, continuando l’attività del maso di famiglia.
“Ho fatto esperienze all’estero con cooperazioni internazionali fino al 1997, quando sono dovuto rientrare per occuparmi del maso, dopo la morte di mio padre”.
Ci sediamo ad un tavolino all’esterno, a lato del locale dove tiene un po’ di attrezzatura per il frutteto, e si stappa il sidro ai fiori di sambuco.
“Purtroppo mi è rimasto solo questo. Ho iniziato a produrre sidro per avere un contatto col cliente, la convivialità di assaggiare insieme e scambiare quattro chiacchiere non si può avere assaggiando mele o carote”.
Parole sante.



Nel frattempo lui ci spiega la difficoltà della produzione artigianale, le varie prove fatte negli anni, gli imprevisti della rifermentazione in bottiglia, e l’amarezza di non poter più utilizzare le mele Gravenstein, adattissime allo scopo, di un vecchio frutteto non più di proprietà e per di più abbattuto.
Ma siamo sulla buona strada, il professor Egger è deciso a riprendere col nuovo raccolto quest’autunno, pensando a qualche variazione al procedimento usato nelle ultime annate.
Fino ad ora la prima fermentazione avveniva spontaneamente, con i lieviti presenti sulle mele che fermentavano gli zuccheri presenti nel succo di mela stesso.
La seconda fermentazione per la presa di spuma avveniva in bottiglia, con aggiunta di zucchero e lieviti da spumante, come si fa col metodo classico.
La sboccatura si faceva portando le bottiglie nella cantina Haderburg, a poche centinaia di metri di distanza, utilizzando le attrezzature usate per lo spumante Haderburg.
Piccole produzioni, fino ad un massimo di 5000 bottiglie, faticando pure per venderle.
“Ho iniziato fin da subito a produrre sidro frizzante, perché le bollicine gli danno quel tocco in più che serve. Trovo i sidri fermi un po’ spenti, privi di verve”.
Con la ripresa della produzione, l’idea è quella di non utilizzare ingredienti esterni alle mele o frutti aromatizzanti, usando il succo per la seconda rifermentazione in bottiglia, invece dello zucchero.
Anche la sboccatura forse non si farà.
Vedremo.
Nel frattempo il professor Egger si sta informando sulle varie possibilità, e vorrebbe apportare cambiamenti per preservare al massimo gli aromi della mela.
Purtroppo il tempo è volato, il pranzo si è avvicinato, ed è l’ora di andare.
Chiedo di acquistare qualche bottiglia, e lui mi omaggia di una rarissima bottiglia del 2003, sboccata nel 2013, dopo 10 anni di permanenza sui lieviti.
Ringrazio calorosamente, e torno alla macchina molto felice e arricchito di nuova esperienza, soprattutto umana.
Nella speranza che non ci siano impedimenti sulla strada di Egger, forse ad inizio estate 2016 potremmo stappare le nuovo bottiglie.
In bocca al lupo professor Egger.
Nel frattempo, io resto in contatto, e vi tengo eventualmente informati.
Le bottiglie riposano in cantina dopo il viaggio, stapperò qualcosa le prossime settimane.
A risentirci.

venerdì 5 giugno 2015

Oslavje 2004, Radikon



di Niccolò Desenzani

Non ho resistito all’acquisto di una bottiglia un po’ scontata di Oslavje 2004, l’altro giorno. La fortuna sfortuna di aver assaggiato i vini di Stanko Radikon agli inizi del mio interesse verso i naturali e i macerati fa sì che restino sempre delle pietre di paragone.
Fortuna perché grazie a Oslavje 2002 e Ribolla 2003, e più avanti Merlot 2002, ho avuto forse fra le esperienze più forti da quando bevo con una certa consapevolezza. Sfortuna perché poi si è ingenerata una ricerca spesso frustrante per eguagliarli.
In realtà molti miti degli inizi cadono col tempo e l’annata 2005 di Radikon mi fece un po’ vacillare all’uscita.
Invece questo Oslavje 2004 è una riscoperta dell’acqua calda. Ha esattamente quello che cerco in un vino: non omologazione e piacevolezza. Una struttura completa che spazza in un sol sorso qualunque polemica sulla macerazione, definendo lui stesso la categoria, in qualche modo.
Mentre lo bevevo, macché, lo succhiavo avidamente, pensavo una cosa ovvia, pensata tante volte: molti cercano nei macerati le caratteristiche che apprezzano nei bianchi e solo allora gridano di ammirazione e annunciano che finalmente quel vino è la prova che i macerati possono essere grandi vini. E invece Oslavje dice, “chiudi gli occhi e non pensare, io sono orange e ti conquisto in quanto tale. Verrai a cercarmi. E niente più sarà uguale a prima.”

mercoledì 3 giugno 2015

La Griotta di Valter Loverier



di Vittorio Rusinà

Valter Loverier è un genio brassicolo, fa birra a Marentino ma potrebbe tranquillamente operare nel Payotteland. Questa birra, brewed in 2014, ne è la conferma, è la coniugazione dell'antico modo di fare una Saison con lo stile millenario delle Kriek. Qui protagonista è la ciliegia griotta che conferisce alla bevanda un gusto davvero unico, fra le cose più buone mai bevute in vita mia.

"Farmhouse Sour Ale - Ispirata alle Saison di un tempo questa birra è fermentata in legno grazie a lieviti selvaggi isolati dalla Beerbera...
Acqua, malto d'orzo, ciliegie griotte (30%), frumento, luppolo, lievito"