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giovedì 30 ottobre 2014

GHOST-WINES (BOOTLEG SERIES, VOL. 1)

Caro diario,
è autunno.
Per la precisione è autunno da circa 5 mesi. Diciamo che Madre Natura ha deciso per il bipolarismo secco. Freddo/Caldo. Brrrrrr. Madre Natura assomiglia ad una Ragazza Cin Cin. Se non sai cosa significhi, meglio. Ignorare è potere e sanità. A volte.
Comunque. Con la stagione delle piogge 24/24 e 7/7 mi è sorta una domanda spontanea? Che cazzo combino tutto il giorno (nota 1)? Sono andato in giro. Ho visitato cantine e città. Qualche cantina e qualche città. Ho molestato viticoltori e osti, baristi ed enotecari, amici e fidanzata. Ho iniziato a sentire una certa attrazione verso la sexy-robotica voce del navigatore satellitare. Ho rotto le palle a Google digitando a manetta Vino+CittàX+Biodinamico+Naturale (opzionale). Caro diario, persino lo spam di Gmail ha smesso di propormi Cialis e ora mi ammorba di macchinari per l’imbottigliamento e/o 12 bottiglie di Chateau Stikatsi al prezzo di 11.
Sono stato a La Spezia. Che è una città strana. Lo so, strana si usa quando non sai bene che cosa dire. E’ che La Spezia sembra due città attaccate in una. Meglio, dirai. 2 is meil che uan. Comunque. C’è una La Spezia 1 ed è la parte vicina al porto con condomini imponenti e squadrati e, tutto intorno, ciminiere e cantieri navali. Al primo impatto sembra una periferia soviet, solo un po’ più degradata. Al secondo impatto uguale. Ma poi scavalli un centro discretamente bombardato dai vari Zara, Intimissimi etc e che pur mantiene un fascino austero in un mix tra viali e palazzoni e vicoli e viuzze; scavalli il centro e inizi a salire verso quella manica di colline ed esplodono le villette liberty, i giardini esplosi di verde, le palme e i fiori, i mattoni rossastri e i freghi bianchi, le cancellate decorate e le boscaglie a pochi metri. La Spezia 2 che sa di Belle Epoque e ricca borghesia.
Poi sono stato a Sarzana. Che c’ha un bellissimo Festival Della Mente e un mercato dell’antiquariato non-cheap e abbastanza chic. E c’ha pure Stefano Legnani col suo ettarino di vermentino e i suoi Ponte Di Toi e Le Loup Garou. E autore anche di quel ghost-wine che è il Tafon. Che era autore. Ora la vigna non c’è più. Venduta, espiantata, kaputt. Se ci fosse un ciccinino di mitologia nella vita, parleremo di un’Araba fenice. Risorgerai, O Tafon, altrove in altre vesti. Ma inutile dire com'è la vita. E, pragmaticamente, fanculo, è stato bello finché è stato.
Legnani tagliava il prato del suo cortile. E’ così che l’ho trovato. E abbiamo iniziato a chiacchierare. E gli ho rotto le palle peggio di inviato di Report. Ma il Legnani è gentile, tanto, e non me l’ha fatto notare. E così abbiamo parlato di:


agricoltura, associazioni, solforosa, imprenditoria agricola, banche, mutui, vermentino & trebbiano, agevolazioni fiscali, disagevolazioni in generale, Maule, vinificazione, meteo, crisi, compratori italiani vs compratori esteri, micro e macroclimi, Romagna, Emilia, terra sole vento, tosaerba, ancora imprenditoria agricola però giovanile, gastronomia, ristorazione,...


Alla voce “Ristorazione” ci siamo bloccati un attimo. “Dove vado a mangiare-per-lo-più-bere stasera?”, ho chiesto. Il Legnani ha accennato un paio di posti. Tutti invitanti. Ma il più invitante di tutti era questo. Il Botteghino. La descrizione suonava una cosa del tipo “molto informale, una specie di pub con robe semplici ma davvero gustose, chessò, affettati e formaggi, schiacciata da urlo, torte salate che se squagliano in bocca. E una carta di vini da urlo. A prezzi imbattibili”.
Il Botteghino è sull’Aurelia a qualche chilometro da Sarzana al numero 312. Da fuori sembra davvero un pub. Anche da dentro. Scuro e semplice. Solo che al posto di vaghe insegne sull’Irish Pride e posteroni della Guinness, ha una parete da wunderkammer dei vini. E da lì in poi ho iniziato a rompere le palle a Gabriele, il titolare. Ho rotto le palle a troppa gente questa estate. Che ci posso fare, il mio karma rimedierà.
Caro diaro, ci sono tornato altre volte, poi, al Botteghino. Per uno spuntino, per bere. per parlare.  Mi sentivo come un cercatore che trovava pepite ad ogni manata. Certo, se l’emozione fosse oro, quest’estate sarei diventato milionario. Ma ti voglio raccontare di un vino. Forse non il più buono. Ma è stato come un raggio di sole che ha colpito una massa di pensieri  facendoli rotolare giù. Una valanga emotiva e concettuale.
Ascolta.



IMG-20140819-WA0002~2.jpgArbois Trousseau Cuvée Des Geologues 2008 di Lucien Aviet.
Per un po’ lo ha avuto Caves De Pyrene. E lo assaggiai qualche anno fa ad una degustazione. Non era questa cuvée. Ma lo stile era quello e pensai. "Ehi, mi piace il tuo stile." Poi l'oblio. La scomparsa dai (miei) radar. 
Gabriele se lo va a prendere direttamente alla fonte. Gabriele, odio et amo per quello che fai. E rezpect, yo.  
Da che parte si inizia a pigliare questo vino? Io la piglio alla larga. Dal momento generale. Da quello che percepisco del momento generale. Si discute tanto abbastanza di una tendenza contemporanea che-in-realtà-è-più-un-ritorno-all’antico. I vini leggeri. Sottili. Delicati. Vini che indurrebbero alla beva. Vini che si contrappongono ai super-estratti grevi e pesanti. Che ballano (quando va bene) come cigni contro gli altri che pogano forsennati. E da queste parti la Francia ci sguazza. La Loira delle meraviglie. E la Jura. 1850 ha vitati a Savagnin, a Poulsard. E un 5% a Trousseau. Che è più difficile da far maturare. Richiede esposizioni soleggiate. E che, pensa, in Portogallo si chiama Bastardo ed entra nel blend del Porto. E che qui, in Jura, si coltiva quasi solo attorno ad Arbois.  
La Cuvée Des Geologues è un vero Ghost-Wine. Nel senso di introvabile e di spettrale. Talmente delicato ed etereo che potrebbe scomparire in un attimo. Nel percorso densità acqua → latte qui siamo più dalle parti della prima. Una non-densità spugnosa che potrebbe scivolarti dalla mano bocca quasi impalpabilmente. Sembrerebbe una specie di parte degli angeli, una bolla alcolica che l’aria trangugia & divora spedendola nel paradiso dei vini sottili. Il naso porta a larghezze olfattive pinoneggianti. Frutti rossi, fragola e mirtillo. Pepatura e spezie. In un profilo disteso, senza strappi, in progressione. E la bocca dove riempie, si allarga, il frutto dolce si mischia a tannini polverosi e poi una vena acidula sembra far sparire tutto. Sembra. Perché un sapore rimane. Un sapore che sembra essersi impresso nella mente. Come carta fotografica in sviluppo. Appare piano piano un’immagine. Un’immagine sfuocata di un paesaggio. Che la sfuocatura rende affascinante. Dove le figure appaiono fantasmi. Fantasmi che vengono da te solo per parlare. Sapori che restano con te senza disturbare, senza alzare la voce. Un vino che si definisce per indefinizioni.  Ma che punta tutto diretto alla beva, ad un equilibrio sottrattivo che vuole essere ascoltato. Io questa cartolina/fotografia la porto ancora con me. Non vedo l’ora di tornarci.


Caro diario, per il momento basta così. Ho come l’impressione di avere rotto le palle anche a te. Ma ci sentiamo presto. Devo ancora dirti di quella volta…

Nota 1: diario mio, io so che tu sai che io so, in effetti, di non essere tipo da spiaggiarsi e impanarsi e abbrustolirsi al sole-e-mare per cui (sempre più in effetti) quella roba delle temperature miti e della pioggia non è che abbia cambiato di molto le mie abitudini estive. In poche parole, le cose che ho fatto le avrei fatte comunque.
E questa immagine è come una webcam piazzatami in faccia 24 ore al giorno.
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martedì 28 ottobre 2014

Ricordi d'Abruzzo, ricordi di Feudo d'Ugni, ricordi di Cristiana Galasso

di Vittorio Rusinà



E' che stasera ho letto sul profilo di Facebook di Francesco Maule le lodi del suo Lama Bianco, è che stasera ha smesso di far caldo, è che mi manca il suo vino e la sua tavola open air davanti alla cantina, è che mi sono commosso ai ricordi: Cristiana Galasso, eccola qui con olive, pane, olio, formaggi e uva pressata, era d'estate.



Io penso che il suo papà sarebbe felice di saperla lì a difendere una piccola vigna di uva tedesca, circondata da boschi, gatti, cani, fiori, farfalle, api, nuvole e stelle del cielo.
E mi piacerebbe che i suoi compaesani credessero di più in lei, giovane donna di vigna, e affidassero alle sue cure le loro uve.
Ho assaggiato tutti suoi vini e tutti mi hanno sorpreso, per sempre.



Verrà l'inverno, verrà il freddo vento dal margine della collina lassù in alto, verrà la solitudine più solitudine della neve, verrà il tempo di scaldare il cuore con un calice di vino, di ricordare che Cristiana possiede una bacchetta di rame, magica.

Cristiana Galasso, Feudo d'Ugni, San Valentino Citeriore

venerdì 24 ottobre 2014

La costa toscana che vorrei: quella di Massa Vecchia

di Riccardo Avenia

Produttore: Massa Vecchia
Denominazione: Rosato Maremma Toscana IGT
Vitigni: merlot 70% malvasia nera 30%
Annata: 2010
Tit. Alcolemico: 13 % vol.
Caratteristiche: vinificazione per alzata di cappello, nessuna filtrazione
Prezzo: 18/24 

Sarà l'etichetta curata e moderna, l'autorevole linea di questa Borgognotta scura o il ricordo dei precedenti millesimi assaggiati ma, ogni volta che trovo questo vino rosato, non posso fare altro che prenderne almeno una bottiglia.

Questa, in particolare, proviene all'edizione 2013 di Vini di Vignaioli. Ricordo che non era nemmeno in assaggio, eppure quando Francesca Sfondrini mi disse che aveva alcune bottiglie in vendita, non tentennai nemmeno un secondo e la comprai a scatola chiusa.

Undici mesi dopo, in una tiepida serata di ottobre, stappandola mi soffermo istintivamente sulla retro etichetta e vi leggo:

In vigna: esclusione totale di prodotti chimici.
Antiparassitari: zolfo e poltiglia bordolese. 
In cantina: vinificazione in legno in assenza di qualsiasi prodotto e tecnologia. Conservazione in legno con la sola eventuale aggiunta di solforosa in piccole dosi all'imbottigliamento. 
Produzione: circa 5300 bottiglie.

Nel calice, il colore ricorda più quello di un rosso scarico, che quello di un rosato. La spinta e l'intensità dei profumi è straordinaria, tra fiori e piccola frutta rossa tipo i lamponi. Si avvertono le spezie, una leggera affumicatura e un'imponente mentolata-balsamicità. Pulizia olfattiva e profumi in evoluzione, senza nessuna stonatura, solo tanta, tanta familiarità territoriale.

Il sorso è snello ma deciso, equilibrato e balsamico, con una marcata sapidità ed il gusto che riprende l'olfatto. lungo, saporito, intrigante, con un finire di capperi in salamoia. Se non fosse per il colore, avrebbe tutte le prerogative di un rosso di lieve struttura.

Un vino di assoluto carattere, che probabilmente si colloca tra i migliori rosati bevuti ultimamente. Che per assetto e dimensioni, pur rimanendo saldo ad una riconoscibile identità toscana, potrei paragonare al alcuni vini dell'Etna.

Un bell'esempio di vino della costa toscana che vorrei.

giovedì 23 ottobre 2014

Della zucca e della consapevolezza gastronomica in 3 atti

di Vittorio Rusinà






1° atto: Contestazione a tavola da parte dei figli sulla presenza di pomodori. "Dobbiamo 
mangiare verdura di stagione, papà!" (sorrido compiaciuto)

2° atto: Avere un'edicola mi da il privilegio di sfogliare molti giornali e sabato 18 ottobre su Repubblica mi imbatto in una intervista di Guido Andruetto a Lorenzo Battiston, ecco uno stralcio "E' una consapevolezza gastronomica che bisogna saper formare nella quotidianità. E' una questione di scelte anche molto pratiche. Mangiare della frutta o della verdura che appartiene a questa stagione per esempio è un atto sano, sensato e inteligente." Sono parole semplici ma di grande efficacia che vanno fatte nostre, che vanno rese atti quotidiani.

3° atto: Arrivo a casa una sera di queste, sono solo, i figli in giro per la città, ma nel forno trovo delle fette di zucca ancora calde. Le assaggio, un filo di olio evo e di shoyu in cottura (mi dirà poi mia figlia) e mi commuovo: sono buonissime, perfette.

mercoledì 22 ottobre 2014

Joao Carlos Silva, cuoco e artista, da Sao Tomé a Terra Madre 2014

Di Vittorio Rusinà

Joao Carlos Silva sarà uno dei cuochi di Terra Madre  2014, fra pochi giorni sarà a Torino dove cucinerà le ricette della sua terra natia, l'isola di Sao Tomé al largo del Golfo di Guinea, in Africa.
Sao Tomé è famosa per le sue piantagioni di cacao, qui vive e lavora anche Claudio Corallo, gran maestro del cioccolato.
Juan Carlos Silva dopo venti anni in giro per il mondo ha deciso di ritornare alla sua isola e di dare vita oltre che ad uno spazio di ospitalità e cucina, anche a spazi dove valorizzare l'arte e l'artiginato locale.
Juan Carlos Silva cucina sogni e lo fa molto bene, consiglio a tutti questo video dove nei primi minuti lo si vedrà fare la spesa al mercato di Sao Tomé, poi cucinare, visitare una vecchia piantagione e una cooperativa di pescatori e infine presentare i suoi progetti d'arte e educazione.

         

video in portoghese con sottotitoli in inglese
http://www.terramadre.info/polpo-banane-arrosto/

martedì 21 ottobre 2014

Régnié 2010, Roland Pignard


Mai dire Gamay!
E’ un vino, come tutti quelli in macerazione semi-carbonica, antropico in cui la tecnica di produzione è indissolubilmente legata al risultato che si vuole ottenere.
E questo è un bene o un male?
Mah!
Forse è solo l’esempio più chiarificante del fatto che il vino è tecnica.
E di questa tecnica Marcel Lapierre con Jules Chauvet e Jacques Néauport sono stati i teorizzatori e i realizzatori più accaniti*.
Negli anni settanta hanno sviluppato e perfezionato la macerazione semi-carbonica e la produzione di vini a zero solfiti aggiunti, traghettando questa tecnica (con parecchie modifiche ai protocolli standard) dai prodotti di consumo banale ai vini di pregio anche da invecchiamento**.
Nel Beaujolais e nelle Ardeche (ma un po’ in tutta la Francia) ci sono produttori che producono tutti i loro vini, rossi e bianchi con macerazione carbonica (sui solfiti qualcuno ha fatto dei passi indietro), è quasi un credo, una religione enologica laica.
La domanda standard (spesso di chi usa badilate di enzimi, tannini liquidi, rotomaceratori, termovinificazione, lieviti secchi, gomma arabica, bentonite, filtri a diatomee, pvpp,  etc etc) è quella sul fatto, abbastanza incontrovertibile, che è una tecnica un po’ omologante.
Un po’ omologante.
Un po’ come ogni tecnica che modifica e altera per raggiungere un obiettivo e il vino, lo sappiamo tutti, non è l’unico stato di quiete che può raggiungere un mosto, anzi è quello più innaturale che ci sia in natura.
Spesso mi capita di assaggiare batterie di vini di uno stesso produttore che hanno un “aria di famiglia”, non è dunque anche questa una omologazione?
Il terroir come ne esce?
Esce dalla bottiglia il terroir che interessa al vigneron e non un generico, oggettivo quanto misterioso e imprendibile “terroir del luogo”.
E il vigneron compie una traduzione a mezzo delle sue tecniche e della sua sensibilità del flebile e inintelligibile racconto che esce dalla terra.
(Mi accorgo che questo discorso apre la via all’accettazione di tutte le tecniche, comprese quelle a me più invise, con la scusa di operare una maieutica enologica)
In verità mentre bevevo a garganella questo Regniè non pensavo a tutte queste implicazioni cervellotiche, perché il vino speziato e pungente e floreale, correva veloce nel gargarozzo.
Il suo colore pallido e i profumi intensi e il corpo agile e fresco annullavano ogni pensiero.
Bonne degù
cucù
Kempè

Luigi


*in realtà la loro macerazione carbonica era decisamente “naturale” rispetto a quella standard che utilizzava e utilizza termovinificazione, inoculi, enzimi, chaptalisation, etc

**interessante il capitolo “I santi” a pg93 e sgg in “Vino (al) naturale” di Alice Feiring, Slow Food editore

lunedì 20 ottobre 2014

Thornbridge Saint Petersburg, nera imperiale.

di Diego DeLa





Come spesso accade, con il volgere al termine della stagione estiva e i primi freddi che si presentano, rigorosamente accompagnati da nuvole e pioggia, l'occhio in cantina  cade sonnolento su qualcosa di meno brioso e più rassicurante. Ad un tratto mi trovo ad abbandonare i colori brillanti ed opalescenti delle birre che mi hanno accompagnato sotto il sole e, sempre più spesso, si affacciano dalla pinta  più tinte che vanno dall'ambrato al nero scuro, scurissimo. Probabilmente Caterina II di Russia, vivendo in lande non propriamente assolate la pensava come me, visto che ha finito per influenzare i birrifici anglosassoni da cui si faceva spedire la birra di cui era ghiotta. 

La Russian Imperial Stout nacque, infatti, come birra da esportazione  verso lassetata corte Russa, e fu precisamente il birrificio londinese Thrale, intorno al XVIII secolo a creare questa birria dal contenuto alcolico importante che sarebbe servito a mantenere l'integrità organolettica del prodotto fino al termine del lungo viaggio. Col tempo, il prefissio Russian venne progressivamente abbandonato, poi ripreso, poi abbandonato e così vìa, esattamente come lo stile fu approfondito e reinterpretato in maniera a volte estrema, celebri le colate di catrame liquido che ogni tanto arrivano dal nord Europa, ma quella che abbiamo quì è, invece, una sorta di personalizzazione ad opera di uno dei migliori birrifici della new wave inglese.
La ricetta originale fu stilata dai mastri birrai Stefano Cossi e Martin Dickie (quì trovate la ricetta, data direttamente dal birrificio ad un homebrewer che ne fece richiesta), nel bicchiere si presenta nera, impenetrabile, con la schiuma beige, fine e persistente, effetto cappucino.
Al naso colpisce per un ottimo aroma fruttato che vira verso il mandarino e  un leggero agrumato che si va a sposare benissimo con le note tostate di caffè e fave di cacao, mentre un leggero sentore minerale riporta il tutto in territorio inglese. L'aroma è finemente strutturato, pulito e molto elegante.
In bocca il  corpo è medio e la carbonazione vivace (anche troppo a dir il vero) e la birra si ripresenta un ottimo equilibrio tra un attacco leggermente agrumato ed un tostato, qui molto più presente, che ci porta dal caffè ad un finale, lungo e persistente caratterizzato dalla liquirizia. L'alcol è molto ben nascosto, sia al naso che in bocca.
Una birra dall'equilibrio e dalla pulizia impeccabile, senza troppi fronzoli, che riesce a mantenere viva la tradizione coniugandola con la modernità in maniera esemplare. L'abbinamento ce lo giochiamo semplice : torta Sacher e via.

venerdì 17 ottobre 2014

Grüne Libelle, Sauvignon Blanc, Steireland, weingut Andreas Tscheppe

di Daniele Tincati




Nel giro di pochi giorni mi sono capitati davanti due Sauvignon spettacolari e decisamente “atipici”.
Dopo il Sauvageonne di cui ho parlato qualche tempo fa, ora questo.
Proviene dalla Stiria, una regione austriaca, ma di più non so.
I vini austriaci sono poco conosciuti in Italia, e io sono tra quelli che non conoscono nulla, o quasi.
Il produttore è un’associato di Vinnatur ed ho conosciuto i suoi vini un paio di anni fa alla fiera che l’associazione tiene in Aprile a Villa Favorita, in un paese in provincia di Vicenza.
Assaggio casuale, quelli che spesso riservano le sorprese migliori, attirato dalle splendide etichette raffiguranti principalmente insetti.
Incuriosito dall’originalità dei prodotti, mi sono procurato qualche bottiglia.
Quell’anno, come lo scorso, i vini in assaggio erano solo campionature in attesa dell’imbottigliamento ufficiale.
Si sentiva un gran potenziale, ma non pensavo si arrivasse a questa qualità.
La particolarità della bottiglia in questione è dovuta sicuramente alla brillante e costante evoluzione nel bicchiere dopo l’apertura.
Il vino, a qualche settimana dall’assaggio della fiera, si presentava in riduzione, probabilmente ancora in movimento dopo l’imbottigliamento.
Dopo più di un anno in cantina, alla stappatura è quasi frizzante, senza però rilasciare sentori sgradevoli di riduzione.
Forse carbonica residua, o una leggera rifermentazione, non so, non sono mica enologo.
Sta di fatto che presenta, soffusi, sentori di vaniglia, qualche nota vegetale piccante e sbuffi pietrosi.
E' chiaro che è un po' chiuso.
In bocca è però bellissimo, la leggerissima carbonica si perde roteando il bicchiere.
La morbidezza si stempera in una freschezza vivissima, ma godibilissima.
La differente acidità è quello che più mi piace di questi vini.
E' notevole la differenza con altri, tra cui Sauvignon, la cui acidità è eccessiva, quasi sgradevole, anche a distanza di anni dopo l'imbottigliamento, quando dovrebbe essere in calo.
Devo attendere un paio di giorni per godermi il meglio dei profumi del Grüne Libelle.
La pesca bianca è il top di questo vino, per un attimo mi sembra un succo anche questo, tale è l'intensità del frutto, che si amplifica in bocca, anche se l'alcool si sente un pochino di più rispetto al Sauvageonne.
Frutta tropicale, tra cui il mango bello nitido, vegetalità quasi aromatiche di alloro e un che di balsamico, completano il quadro olfattivo, senza dimenticare una mineralità di fondo sempre presente.
Sembra quasi superfluo dire che è intenso in bocca, decisamente lungo, e lascia un bel ricordo fruttato.
Perfetta la tenuta alla lunga, non ho percepito nessuna alterazione gustativa, anche dopo alcuni giorni, con solo poco vino rimasto.
Adesso mi resta un altro Sauvignon ed uno Chardonnay che già pregusto, ma non mi attento ad aprire perché il tappo si è alzato almeno cinque millimetri.
Deve essere stata un'annata problematica la 2011 per quelle zone, ma se il risultato è questo....
I 2012 assaggiati erano decisamente differenti, ma sempre interessanti, e sarei curioso di sapere come sono ora.
Unica nota dolente, i prezzi non proprio popolari, ma comunque in linea con prodotti di pari livello, anche se magari più conosciuti.
Salute.


resenta, soffusi, sentori di vaniglia, qualche nota vegetale piccante e sbuffi pietrosi.ilasciare sentori sgr

giovedì 16 ottobre 2014

A pranzo a La Cena coi Fiocchi a Torino

di Vittorio Rusinà



Lontano dalle solite rotte enogastronomiche torinesi ma vicino alle vestigia di quello che fu cuore calcistico della città, il glorioso Filadelfia, c'è una osteria deliziosa per il cibo e il servizio, si chiama "La Cena coi Fiocchi", è il regno di Francesca Lopresti, una vera regina in sala.
Qualche giorno fa ho pranzato benissimo spendendo solo 15 euro e mangiando pasta con le sarde, insalatina di finocchi e arance, piccolo e meraviglioso cannolo, pane, acqua minerale e caffè. Fra le bottiglie di vino esposte su un tavolo vicino all'ingresso ho scorto i vini di Cos (dunque qualcosa di naturale c'è). Molta attenzione al pescato sempre presente in menù. Serate a tema sempre piene (il locale ha una clientela affezionata). Fra i miei posti del cuore a Torino.

Osteria La Cena coi Fiocchi, via Spano 16, Torino

mercoledì 15 ottobre 2014

Camporenzo 2011, Valpolicella Classico Superiore, Monte Dall’Ora



Ammetto di non aver mai frequentato con assiduità i vini di Valpolicella in parte fuorviato dalla pesantezza mediatica e economica degli Amarone in parte perché mai come oggi dopo anni di vinoni, il gusto si è sempre più orientato verso i vini “smilzi”; non preoccupiamoci è una moda che passerà!
Non che il Camporenzo sia smilzo ma di sicuro la sua piacevolezza la sciorina nella leggerezza di beva, nella speziatura delicata ma piccante, nei profumi fruttosi in punta di stiletto.
Scende abbastanza fresco e con piacevole velocità nel gargarozzo e si accompagna bene al desco rilassato di una cena fra amici.
Un bel vino rilassante, che non mette soggezione, che non obbliga a stare tesi nel bicchiere nella paura di perdersi qualcosa.
Penso che tornerò sia nel bicchiere sia di persona in Valpolicella.
Kempè

Luigi

Ps

Senza alcuna polemica mi viene da dire che noi dal reddito sempre in asfissia nei fine mese, possiamo “accontentarci” dei Valpolicella e lasciare con tranquillità gli Amarone ad altri.

martedì 14 ottobre 2014

Legumi d'autore #1 Ustica

Mentre mangio questa deliziosa zuppa homemade di piccoli fagioli bianchi di Ustica con cipolla e pomodoro, comprendo che la qualità dei legumi va cercata, va trovata, va diffusa. I piccoli eroici produttori di legumi d'autore vanno sostenuti perché grazie a loro una zuppa può trasformarsi in un piatto di eccellenza, può svoltare.
Qui l'eroe agricoltore è Pasquale Palmisano di Ustica, che produce anche delle meravigliose lenticchie.

Az. Agricola U'Baruni di Ustica, Sicilia
thanks to Rossana Brancato

lunedì 13 ottobre 2014

5 solo 5, così tanti?



Ideona in “redazione”! Abbiamo deciso sciorinare in un post l’elenco di cinque vini che ci hanno fulminato durante questa estate 2014.
Sì bellissimo anche noi a fare classifiche, fico!
Poi ci ho ripensato e mi è caduta addosso una certa depressione.
Nera nera.
5?
Sono tanti, non ho bevuto 5 vini questa estate che mi abbiano commosso.
5 vabbè facciamo 3 mi son detto
A 3 forse arrivo.
Forse.
E non è che mi sia lesinato.
Ma è l’emozione che è mancata.
Sarà stato il tempo, lo stress, la vecchiaia incombente, la disillusione.
Sarà stato l’acido biliare messo in circolo dalle infinite polemiche.
Sarà stata la tristezza rabbiosa che mi procurano le parole e le uscite sui sn dei “soloni” snob che parlano di vino e di cui senti l’alito che puzza di muffa e di stantio, parole tristi, ampollosamente tecniche, inutili, vanagloriose che mirano a glorificare la santità dell’estensore invece che la bontà del vino.

5 vini 5?
Tanti
Troppi
E pensare che mi sono applicato anche saggiando i vini figli del lato oscuro dell’enologia.
Niente neanche lì.
Però ho deciso di sforzarmi e chiudo gli occhi e mi vengono  in mente:

i vini georgiani che mi ha fatto conoscere Nicola Finotto.
I vini di Ezio Trinchero.
I vini di Frank Cornelissen.
I vini di Jean Claude Rateau.
I vini che non esistono più di Do Zenner.

Così facciamo 5 anche se non 5 vini.
Però almeno ho rispettato il dictat numerico.
A riguardare c’è tanta Sicilia.
Bah! Sarà il caso.
Non un vino in particolare ma sinergie sensoriali, sommatorie di piccole emozioni, filtrate dalla memoria di tanti assaggi, di tante parole, di tanti chilometri, di tante strade che mi hanno portato da loro qui in questo momento.
Luoghi in cui “Sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso”*