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mercoledì 10 settembre 2014

Haute Cote de Beaune 2013, Jean Claude Rateau

Disclaimer: vino in conflitto di interessi.


Jean Claude Rateau è il perfetto stereotipo del “Gallo” dei fumetti di Goscinny e Uderzo, alto, dinoccolato con baffoni sale e pepe, occhi melanconici che guardano chissà cosa.
La sua timidezza e riservatezza sono incredibili, per sentire la sua voce bisogna interrogarlo duramente.
Sembra arrivare da un altro secolo eppure guardando le sue etichette, molto belle a mio avviso, si intuisce che sa bene in che mondo viva, anche se la sensazione è che non ne approvi tutte le sue manifestazioni.
Unisce una grafica molto contemporanea a un uso ormai trentacinquennale della biodinamica, è del 1978 la conversione dei vigneti.




Assaggiando i suoi vini mi pare di intuire nel bicchiere, tutto questo suo lavoro sulla terra e la sua vitalità.
I suoi bianchi sono molto minerali, salati alcuni, sfaccettati e caleidoscopici, mai caricaturali, sempre affilati e pervasi da una acidità vitale.
Riesce a tirar fuori da un luogo, la Haute Cote appunto, un po’ marginale rispetto ai Gran Cru, spesso su pendii più ripidi e altitudini maggiori, dei vini delicati, in “levare”.
Timidi è la parola giusta quasi che il liquido fosse effige del carattere del vigneron.
Questo bianco ha una colore pallido, dei profumi delicatamente citronnè, caleidoscopici, mutevoli e la beva acido salata.
Ci deve essere silenzio per assaporarlo.
Uve provenienti da un vigneto esposto a est con impianto a “lira aperta” (una forma piuttosto anomala, penso, attendo delucidazioni) con sesto d’impianto non fittissimo.
Vinificato con fermentazioni spontanee (con buona pace di chi dice che i bianchi cosiffatti sono pochissimi) e affinato in legno piccolo usato per circa un anno.
Uno chardonnay nordico.
Elegante.
Degustato la prima volta con Nicola Barbato (alias il commercialista del vino) e Patrick Ricci, ci ha preso in contropiede proprio per questa esilità che abbiamo subito subito scambiato per evanescenza.
La seconda volta con più calma con Vittorio Rusinà che continuava a tuonare “dammene ancora! Mica lo vuoi tenere per domani!”.
Kempè

Luigi


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