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martedì 30 settembre 2014

Brezzolina 2013, Tenuta Migliavacca

di Niccolò Desenzani







Profumi di prato umido e una punta penetrante di fiori, con uno spunto di lime, fanno da presagio a un sorso fresco e campestre. Abbastanza largo per un vinino, ma contenuto in un sottile guscio di acidità, ancora uvoso fermentativa; una lontana aromaticità lo rende peculiare.
La ricchezza aromatica sorprende con lontani ricordi di whisky e di falò contadini. Qualcosa di fortemente agrestre che pare quasi in comune ai rossi di casa; e anche la spiccata vitalità che rende questi vini semplici e profondi. Testimoni di qualcosa di forte e intenso che appartiene a quel bricco a quegli scoscesi pendii che guardano il Po e la pianura tutta e i monti, e sono spesso in balia del tempo, coi venti e le piogge, il caldo, il gelo. Le nuvole veloci.
Restano in bocca la buccia e la polpa dell'uva alla loro quintessenza.
Buono da schiantare la memoria sensibile in un'enfasi del piccolo, semplice e straordinario vino.

lunedì 29 settembre 2014

Sauvageonne 2009, Vin de France, Domaine des Griottes

di Daniele Tincati



Negli ultimi tempi circolano sempre di più sulla mia tavola delle bottiglie provenienti da due regioni della Francia che ho sempre snobbato, fino ad ora.
Loira e Languedoc-Roussillon non mi hanno mai attirato più di tanto in passato.
Ultimamente invece (si tratta poi ormai già di 2-3 anni) sto scoprendo vitigni poco conosciuti e riscoprendo altri come non li conoscevo.
Si perché la Loira è la patria, fra l'altro, del Sauvignon.
E qui niente di strano ma, oltre al Sauvignon classico come te lo puoi aspettare e come lo trovi più o meno anche in Italia e in altre nazioni, si trovano i Sauvignon che non sanno di Sauvignon.
E qui scatta la molla.
Perché ?
Perché c'è qualcuno che vinifica in modo tradizione e non usa cose che portano in tutto il mondo a trovare Sauvignon che hanno più o meno gli stessi sentori che ben conoscete.
A dir la verità se ne possono trovare anche da noi di veramente buoni e che non sanno di Sauvignon.
Ma allora qual è il vero Sauvignon ?
Di cosa sa ?
Che profumi ha ?
Io ancora non l'ho capito, ma mi sono stufato del bosso, della foglia di pomodoro e della piscia di gatto.
Poi ci sono certi che hanno pompelmo e fiori di sambuco di precisione chirurgica.
In questo caso, resettate tutto ed aprite il naso e la mente.
Intanto prendo la bottiglia dalla cantina, è coricata, e vedo sul vetro un deposito di fondo notevole, quasi fosse un rifermentato.
Ma il tappo è di sughero a raso e quindi non può essere.
Decido di mettere la bottiglia in piedi ed aspettare ad aprirla giusto in tavola, anche se è un 2009.
Saggia decisione perché certi vini, una volta aperti, si ossigenano e deperiscono rapidamente.
Quando stappo il vino è ancora chiuso, ma non ha sentori anomali, è semplicemente senza profumi.
Nel bicchiere si apre presto, rimanendo però molto tenue.
Profumi delicati di frutta a polpa gialla, ben matura, qualche soffuso accenno di spezie, ma non decifro più di tanto.
Agitando esce una nota eterea volatile decisa ma non fastidiosa, che si reintegra rapidamente nella frutta.
Avete presente quel sentore che sprigiona anche la frutta tropicale quando è matura ?
Ecco, quello.
All'assaggio da il suo meglio.
Presenta una leggerissima carbonica residua che stimola la beva.
Agitando il bicchiere sparisce completamente, riportando in equilibrio l'assaggio che sfodera una bella morbidezza polposa.
Freschezza contenuta ma presente, e sapidità ben integrata.
Non riesco a capire se ci può essere un leggero residuo zuccherino, ma penso di no perché con quel fondo sarebbe difficile.
La sensazione è quella del succo di frutta.
Non scherzo, la prima cosa che mi è venuta in mente è quella.
Ma come si fa a fare un vino che, dopo 5 anni in bottiglia, sembra un succo di frutta ?
Sinceramente lo devono sapere in pochi, perché fino ad ora non me ne erano mai capitati.
Magari non lo sa neanche quello che lo ha fatto, gli è venuto a caso, boh....
Sarà forse per l'alcool che, nonostante il 13%, non si sente per nulla.
Vi assicuro che ho rischiato di finire la bottiglia, non da solo, ma in due, anche se mia moglie non ha contribuito un gran che.
Decido di tenerne un poco da parte.
Tappo con pompettina e metto in frigo.
Dopo un paio di giorni verifico la tenuta.
Ahimè, quel poco è ormai andato, e la parte col fondo è davvero pesantemente alterata.
Peccato, la prossima volta non vedrà l'alba del giorno dopo.
Conferma che certi vini hanno scarsa tenuta, ma regalano soddisfazioni incredibili ed impensabili per altri che sono stabili ma statici.
O per lo meno, le regalano a me, in questo momento.
Magari alcuni preferiscono vini che aprono e si bevono un bicchiere al giorno per una settimana.
Questione di gusti e di esigenze.
Io resto in ricerca, poi vi dico....

venerdì 26 settembre 2014

A scuola di birre italiane con Diego DeLa Cuerva

di Vittorio Rusinà


Musica ad alto volume, cover di Ligabue, al Maglio, a Torino, a Birra Decc c'è il laboratorio sulle birre italiane tenuto da Diego DeLa Cuerva, amico del bar, home-brewer e divulgatore di conoscenze brassicole.
Io sto lì un'ora prima che apra, c'è già la fila davanti all'ingresso, fa caldo, ho sete.
Diego inizia a raffica:
Luppolo: imparo che è molto delicato, teme la luce e l'ossigeno
Malto: assaggio i chicchi di orzo maltati
Lievito: c'è anche il lievito liquido che però è più difficile da lavorare
Quando Diego parla delle birre a fermentazione spontanea mi sembra di sapere tutto e invece scopro che da Cantillon usano luppolo vecchio di 2/3 anni giusto per la conservazione non per il gusto anche se ci sono voci di uso di luppolo fresco negli ultimi tempi di grande produzione.



l'olfatto ah l'olfatto è importantissimo, poi c'è l'approccio visivo per cui imparo che il colore della birra non ha alcuna relazione con il grado alcolico (birra scura non è uguale a birra più alcolica).
La schiuma deve esserci, un bel cappello di schiuma protegge la birra.
La prima birra che degustiamo è una Blanche, una birra di frumento non maltato che dona una certa asprezza e acidità. E' la BiancaNeive di CitaBiunda, una birra rara da trovarsi al di fuori del birrificio con locale annesso di Neive (CN), combinazione è una birra che conosco e che amo. Una birra da bere a ettolitri (nel vino si usa il termine da bere a secchi). Il colore non è pallido come uno si aspetterebbe dal nome ma bello carico. Qui il lievito usato è quello dello champagne.
Il pubblico pari numero di donne e uomini (like) segue attento e intanto beve (viene concesso sempre il bis)


La seconda birra, ah la seconda meravigliosa birra, è una White Ipa di Bad Attitude, birrificio svizzero, creata in collaborazione con il mitico birrificio norvegese Nogne. Una birra non facile da fare, una vera chicca, da consumarsi in brevissimo tempo, una blanche declinata al luppolo della Nuova Zelanda. Profumi e sapori di mango, pompelmo, mandarino, qui il lievito rimane neutro, grande acidità e beva a mille. Strepitosa!




La terza birra è la Nut di Renzo Losi, una Apa American Pale Ale. Renzo dopo anni presso Panil, è venuto a Torino e ha creato Black Barrels continuando il lavoro con le botti.
Birra con un gran naso: miele, legno umido, buccia d'arancio amaro, frutta secca.
Avere a Torino un mastro birraio come Renzo è davvero una grande cosa.



Quarta birra la Nocturna di Kamun, una stout, birra scura, molto buona (adoro le birre nere). Profumi e sapori di legno di faggio bruciato, orzo tostato, caffè. Diego dice che è meglio spillarla a pompa ed è perfetta abbinata con i fichi d'India.
Alla fine il miglior commento alla serata è di una signora che dice: "Finalmente ho capito qualcosa della birra!".
Quello della birra artigianale in Italia è un mondo da esplorare, un mondo relativamente giovane e con grandi margini di miglioramento (penso ad esempio alla qualità delle materie prime, dove sul tema biologico siamo ancora ai primi passi).
Una mia personale nota dedicata ai ristoratori italiani: è ora di abbandonare la birra industriale in favore della birra artigianale! Vedere locali di tendenza eno-gastronomica con spine di birre industriali fa male al cuore.
Grazie Diego per aver condiviso la tua conoscenza.

giovedì 25 settembre 2014

Jelie, la donna naturale

di Vittorio Rusinà
Jelie è una signora ottantenne di Jovencan, in Valle d'Aosta ed è la protagonista di un corto del regista Joseph Péaquin, presentato a Torino Cinemambiente 2014. Esperta di erbe e fiori, Jelie è per me l'emblema della donna naturale, che rispetta e conosce la natura che la circonda e di cui lei si sente parte integrante. Nelle sue parole semplici c'è grande conoscenza, davvero grande. 


il corto "Jelie" è stato prodotto dal Centre d'Etudes Les Anciens Remédies (VdA)



martedì 23 settembre 2014

2011 Odissea nella garganega


di Niccolò Desenzani



Disclaimer: Questo post è una marketta! Perché Francesco Maule mi ha omaggiato di quattro bottiglie di Pico dell’annata 2011 di cui i tre cru Taibane, Monte di Mezzo e Faldeo, imbottigliati a inizio agosto 2012, e l’assemblato Pico tout-court, imbottigliato a febbraio 2013.
(In realtà Francesco, con grande gentilezza e senza che fosse dovuto, ha voluto riparare a un’esperienza con una bottiglia di Pico non in ordine, sostituendosi all’enotecario che non aveva voluto fare fronte)
Ma soprattutto è una marketta perché io sono un grandissimo estimatore di questo vino e i miei giudizi tenderanno naturalmente all’enfasi positiva .

Tuttavia, perché questa storia avesse un senso ancor più compiuto, ho cercato di aprire le bottiglie in una circostanza che fosse memorabile; dalla quale, in particolare,  potesse discendere un post che desse rilievo all’esperienza “orizzontale”.
L’occasione me l’ha fornita un amico, bevitore curioso, ma non afflitto dal nostro iperassaggismo maniacale, il quale stentava a credere che i suoli fossero così caratterizzanti per il vino. Insomma esprimeva un sano scetticismo contro il nostro iperterroirismo aprioristico.
Ma da terroirista in erba non potevo non cogliere il guanto della sfida; e così coinvolgevo un altro amico anch’esso esente da ismi enoici, ma di palato finissimo, grande sensibilità e capacità descrittive.
Così, una sera di fine agosto abbiamo fatto questa orizzontale 2011 del Pico, che ho battezzato “2011 Odissea nella garganega”.
Ho scelto di partire dapprima con solo due vini. Le degu di vini simili non sono così facili come uno se le immagina e il palato va ben tarato prima che emergano le differenze. Ho puntato su due cru più “distanti”, o almeno tali io li vedevo dagli assaggi precedenti: il Taibane e il Faldeo.
Ricordavo il primo più pieno, più fruttato, appena più alcolico versus il secondo più magro, più birroso, forse un po’ più spigoloso, ma di una beva formidabile.
Va tenuto in conto che, essendo questi vini vivi, essi hanno continuato a mutare nel bicchiere durante il corso della serata, risultando a tratti più simili a tratti molto ben distinti.
Il carattere quasi fermentativo del Faldeo e qualche durezza in più ne hanno decretato un giudizio di “vino più difficile”, mentre il fratello Taibane, col suo carattere più sinuoso e la maggiore completezza ha ammaliato e si è fatto amare (notevole la sapidità). Qualcuno a tratti era estasiato.
Interessante assaggiare insieme il Monte di Mezzo, con un carattere molto più understatement rispetto ai fratelli, più classico forse, un po’ meno incisivo. Ma io non escludo che su cibi delicati e in atteggiamento disimpegnato, possa trovare la chiave della sua eccellenza.
Dopo aver assaggiato questi tre vini da affinamento preimbottigliamento breve, con la loro esplosività, la loro tensione, la loro dinamicità, l’assaggio del Pico 2010 tout court risulta più strutturato, ma forse meno fragrante. Ancora una volta però un grande vino da un grande vitigno su questi suoli.
Quattro bottiglie in perfetta salute, che dipingono quattro volti della garganega a Gambellara. Che sono fra i migliori testimoni dei vini senza nulla oltre l’uva e che incredibilmente hanno resistito all’assaggio non solo il giorno dopo, ma persino a distanza di sei giorni, al mio ritorno velico dalla Croazia (ma lì ognuno ha la propria vigna? da esplorare!).




lunedì 22 settembre 2014

Grignolino del Monferrato Casalese 2011 - Tenuta Migliavacca

di Riccardo Avenia

Per chi è assiduo frequentatore di questo virtuale bar, i vini di Tenuta Migliavacca di Francesco Brezza, non sono di certo una novità. Nel caso invece non conosceste questa realtà piemontese, accenno brevemente il modus operandi di casa: l'agricoltura è condotta con i criteri della biodinamica da cinquant'anni (l'ormai famoso Stefano Bellotti, è stato allievo di Francesco, per dire). Le fermentazioni - per quanto concerne il grignolino - avvengono spontaneamente in botti, con brevi macerazioni a contatto con le bucce. Matura successivamente nei medesimi contenitori, per un periodo che può variare dai 6 ai 12 mesi. Ridotte dosi di solforosa, esclusivamente durante l'imbottigliamento e nessun utilizzo di prodotti chimici.

Per un ulteriore approfondimento vi rimando dagli amici Vittorio e Luigi, che ne scrissero a suo tempo.

Dopo aver studiato io stesso tutto questo, non conoscendo personalmente questa realtà, mi resta solo lo stappare la bottiglia e tuffarmici metaforicamente dentro.

Il colore è rosso arancio, scarico e velato. Il bagaglio olfattivo che ricordavo dai grignolino bevuti in passato, qui sembra in evoluzione. I fiori sono in appassimento, la piccola frutta rossa, inizialmente fragrante, è ora matura ed intensa come in confettura. Si allarga alle spezie e ad alcuni sentori che in qualche modo, mi riportano al nebbiolo: cuoio, legno restaurato, smalto e confetti. Incredibile, non l'avrei mai detto, che nobiltà questo vitigno. Sarebbe bello versarlo alla cieca ad alcuni amici: sai quante ne sparerebbero e, quante ne sparerei anche io.

Il sorso è snello, godibilissimo, con una balsamica sapida acidità. Sotto, il ricordo di finissimi tannini. Tutto in perfetto equilibrio. Eleganza, dinamismo. Ritornano i fiori, ritorna il frutto, le spezie, torna tutto. Probabilmente, l'ho aperto nella sua quintessenza.

In queste poche giornate di caldo sole, sbicchieratelo senza indugi bello fresco: ne godrete.



P.s. Se non fosse stato per l'amico Enofaber ed il suo #grignolino1 (quanti bei ricordi. Quando ripetiamo, Faber?), questo vitigno sarebbe stato - per me - solo uno dei tanti da imparare a memoria per l'esame del terzo livello AIS.

Lunga vita a questi vitigni "minori", che come pochi raccontano un'inimitabile territorio e le sue tradizioni. Ma soprattutto, lunga vita ai vignaioli come Francesco Brezza, che ancora riescono a farci gioire, grazie a questi vini veri.

venerdì 19 settembre 2014

Il vino “fa rima” con le bucce a Barge!





























Il pinerolese non lo si può definire l’”eden” enologico del Piemonte, però così come la Valle Susa, un tempo producevano vini molto apprezzati, forse più apprezzati dei contemporanei “block buster” enologici.
E questo la dice lunga sull’influenza della comunicazione in un mondo dissolto in bit.
La mia sensazione è che oggi il miglior “territorio” sia sempre più quello che è maggiormente “parlato” e non quello coltivato.
Io che ho empatia con gli eroi sfortunati e negletti e incompresi, amo cercare negli angoli bui e questa volta, grazie a Luca Coucourde attivissimo e curioso proprietario dell’Enoteca 13 gradi di Luserna san Giovanni (TO), cittadina famosa per il duro lavoro delle cave di pietra “Luserna” con le quali si è costruita e abbellita la Torino barocca e non solo,  mi ha segnalato un produttore, Beltramo e mi ha omaggiato del suo macerato, il FARIMA.
FARIMA è l’acronimo delle cultivar presenti nel “mischione”, Fa vorita-RI esling-MA lvasia il tutto macerato (pochi giorni).
Il risultato è molto interessante, di grande freschezza, un vino molto godibile con la malvasia e la sua vegetalità sugli scudi, quasi si stenta a credere che sia stato vinificato in rosso.
Vino da giudicare a secchi!
A breve tornerò da Luca per provare la Barbera e il Dolcetto che in questa enclave da buoni risultati (così mi dicono).
Quindi possiamo concludere: non solo pietre a Barge* e a Luserna!
Kempè

Luigi


*Barge come Luserna San Giovanni sono vicine alle cave di pietra da esterni e la loro storia secolare è legata principalmente a questa attività.
Barge è in provincia di Cuneo ma ricade nella doc Pinerolese.


giovedì 18 settembre 2014

un viaggio in Georgia, nel bicchiere, Nikoladse wine


Georgia
Culla della viticoltura e del vino (così ci dicono)
Tutto è nato lì circa seimila anni fa
Il vino vissuto nei millenni come un compagno di vita senza la sacralità della “cantina” e tutte le sue ritualità e le attrezzature allineate come un piccolo esercito.
Alcuni Qvevri interrati nell’aia sono sufficienti ai Georgiani per compiere il miracolo della fermentazione.
 “La più malinconica seta io affronterò con le mani più allegre che avrò per raccontare a chi non lo sa, eh, eh quel che è solo normalità” (P.Conte)
Così mi immagino l’operare tranquillo e immerso nell’arcaicità dei vigneron georgiani

Così appena arrivati i vini, senza aspettative ma con una curiosità scimmiesca mi sono approcciato ai vini di Nikoladse (produttore della zona viticola degli Imereti) da due cultivar differenti
Apro il primo, il Tsitska 2011
E assaggio un vino di una eleganza incredibile
La macerazione, la permanenza sulle bucce
Dov’è?
Bevuto tutto, senza scoprire dove fosse! (vino dell’estate e forse dell’anno 2014)
Freschezza citrica che induce una beva compulsiva, leggerezza e profondità (in certi momenti controllo l’etichetta non vorrei aver aperto un altro vino!)
Saporito e salato


Il giorno dopo apro il secondo, il Tsolikouri 2011
Qui il colore già anticipa delle ruvidezze maggiori
Ma rimaniamo nel campo della eleganza, contadina forse ma pur sempre setosa (malinconica seta…)
Maggiore intensità e maturazioni
Leggera grassezza, più orizzontale del primo
Il velo tannico aiuta il palato
E la bottiglia finisce sempre troppo presto!
Kempè

Luigi

Ps
Ringrazio Nicola Finotto spacciatore di liquidi georgiani e autore su Pietre Colorate n°18 di uno struggente articolo sulla Georgia


mercoledì 17 settembre 2014

Bad Attitude/Nøgne Ø White IPA, l'ibrido che non ti aspetti.


di Diego DeLa



Di questa  birra avrei dovuto parlare almeno un mese fa, ma siccome l’estate 2014 è stata  molto blanda e pare sempre in procinto di iniziare a fare sul serio (attenti che arriva ottobre...) ci prendiamo una piccola libertà spazio-temporale e facciamo finta di essere pronti per andare in vacanza a gioire dei 40 gradi all’ombra, con un disperato bisogno di sollievo dalla calura.
Eccoci allora a parlare di una birra nata dalla collaborazione tra il birrificio ticinese Bad Attitude e i norvegesi della  Nøgne Ø, lo stile di riferimento è una delle ultimissime mode /evoluzioni/ sottogeneri della India Pale Ale ossia quel White IPA nato nel 2010 con l’intenzione di unire le peculiarità delle Wit/Blanche belghe (per cui utilizzo di una buona percentuale di frumento non maltato e spezie) alla potenza espressiva luppolata delle classiche IPA americane. Se poi questo sottogenere vada  quasi a sovrapporsi al ben meno noto mondo delle Wheat  Ales americane poco importa, nel vorticoso mondo birrario contemporaneo tutto viene macerato e digerito alla continua ricerca della next big thing e i discorsi da intraprendere sarebbero molteplici riguardo all'opportunità di queste continue proposte che sembrano albergare più nel terreno del marketing che in quello della ricerca brassicola vera e propria.
Comunque, al di là di queste elucubrazioni, andiamo spediti verso quello che più ci interessa: nel bicchiere  il colore è dorato, decisamente opalescente per l’utilizzo del frumento e la schiuma si mostra generosa, bianca e persistente.
Gli aromi al naso sono esplosivi  con un accento marcato deliberatamante sugli agrumi e la  frutta esotica, avocado e mandarino su tutti, dopodichè emerge anche una speziatura elegante a base di Curaçao e sali da bagno (coriandolo).
In bocca il corpo è esile e la carbonazione media, anche qui l’esplosione fruttata la fa da padrone  appena controbilanciata da una leggerà acidità che  rende la bevuta seriale; l’alcol (6.2%) non si percepisce affatto e  il finale conclude l’opera con un amaro agrumato, secco e  persistente davvero invitante.
Una birra semplicissima che fa leva su un naso straordinariamente fresco, da bere in quantità  e adattissima ad accompagnare carni bianche, insalate e frutti di mare, a condizione però di essere bevuta giovanissima, e qui mi associo alla richiesta di mettere in etichetta la data di imbottigliamento avanzata più volte sull'ottimo blog "Una birra al Giorno", in quanto la fragranza del luppolo tende a spegnersi velocemente in bottiglia e anche la presenza di una discreta percentuale di frumento rende questa birra non particolarmente stabile nel tempo.

lunedì 15 settembre 2014

La pazza voglia di bere lo Zibibbo di Gabrio Bini

di Vittorio Rusinà


E' che avevo ancora il ricordo di profumi di pompelmo e cedro di quando tanto tempo prima lo avevo assaggiato, è che avevo una pazza voglia di riberlo, è che finalmente non ero solo ma con cari amici a dividere la spesa (costicchia)
E' che era addirittura superiore alle mie aspettative, ai miei ricordi.
Uno dei più grandi vini italiani, il Serragghia Bianco di Gabrio Bini.
Zibibbo, zabīb (زبيب) 

venerdì 12 settembre 2014

Cantillon Rosè de Gambrinus, tutta l'eleganza del lampone.


di De La


Rieccoci nella nostro piccolo viaggio  nel mondo  delle fermentazioni spontanee a fare i conti con il birrificio per eccellenza, quel Cantillon che da qualche tempo sta raggiungendo un livello di notorietà notevole e che, ahinoi, sta spingendo i prezzi di questo particolare stile di birra sempre più in alto.
 La framboise, di cui ci occupiamo oggi è la “sorella minore” in termine di notorietà della kriek e mentre in quest’ultima  si usa macerare le ciliegie griotte nel lambic, la framboise viene fatta utilizzando  i lamponi, per la precisione 200 grammi per ogni litro.
  Il birrificio di Bruxelles è uno dei pochi produttori mondiali di questo tipo di birra la cui storia vede uno stop produttivo attorno dal 1930 per poi riprendere nel 1973, quando un amico del mitico Jean Van Roy si presenta in birrificio con 150 kg di lamponi e il birraio si lascia tentare, riprendendo la produzione di uno stile che a quel tempo era dominato per lo più da birre dolci a cui veniva aggiunto dello sciroppo alla frutta. Quindi vediamo, ancora una volta, il birrificio Cantillon ergersi orgogliosamente a paladino della difesa delle tradizioni e dei gusti originari.
 La birra verrà chiamata Rosè (per il colore) de Gambrinus ( in onore al patrono della birra) e nel 1986 verrà identificata con una delle etichette più iconiche della storia brassicola a firma di Raymond Coumans.
 Nel bicchiere il colore è di un meraviglioso rosso brillante, la schiuma ocra, fine e poco persistente.
 La birra è giovane, imbottigliata il 20 Novembre 2013, al naso l’aroma è elegantissimo , seducente e ,prevedibilmente, il fruttato dei lamponi  tende a coprire gli off flavours tipici del lambic, anche se un tocco di legno umido e un leggero mentolato fanno capolino,con il salire della temperatura si presentano anche deliziose note di fragola.
 Il bocca il corpo è medio/basso e la carbonazione media, il gusto vira sul lampone con una bella acidità citrica a fare da contrappeso, vi è anche  una certa astringenza che ci conduce verso un finale secco, fruttato e persistente, a tratti pare addirittura sapido. Anche qui, con l’inalzarsi della temperatura (sono partito attorno ai sei gradi) emergono note di rosa e leggermente agrumate.
 Una birra decisamente votata all’estate, ottima come aperitivo o pausa rinfrescante, caratterizzata dal basso contenuto alcolico (5%), è probabilmente la birra più accessibile in casa Cantillon e riesce a coniugare perfettamente eleganza al classico tocco ruspante per cui il birrifico è famoso. Se preferite, potete lasciarla in cantina ad invecchiare per qualche tempo, in tal modo la parte fruttata lascerà un pò di spazio alle sensazioni più rustiche, oppure potreste stapparne una bottiglia ogni tot, alla ricerca dell'equilibrio perfetto. [deLa]

giovedì 11 settembre 2014

Elva e il miracolo della gentilezza, la Butego Emporio Alimentare

di Vittorio Rusinà


Elva è un sogno di pietre e di legno, fra le nuvole, in mezzo a prati, conifere, fiori e bardane, eremo isolato in alto verso le cime delle montagne della valle Maira, pochi abitanti, una chiesa affrescata sorprendentemente dal grande Hans Clemer nel 1493.
Cammino e sento delle voci giovani salutare i rari passanti, toni di calore e gentilezza che mi fanno accelerare il passo verso di loro: sono i proprietari dell'unica bottega alimentare del paese. Entro e vengo rapito dalla loro scelta di formaggi artigianali fra cui spiccano i caprini a latte crudo bio di Lo Puy, ci sono i meravigliosi mieli bio di Floriano Turco, il genepy regna ovunque nel negozio, nei distillati, nelle erbe essiccate e persino nei formaggi, ci sono anche le birre di patate da una ricette di Andrea Bertola. Un piccolo paradiso lontano da tutto ma vicino al cuore, applausi ai giovani di La Butego, Occitania d.o.c., vale il viaggio.








Elva (CN) Valle Maira - http://www.ghironda.com/valmaira/comuni/elva.htm

mercoledì 10 settembre 2014

Haute Cote de Beaune 2013, Jean Claude Rateau

Disclaimer: vino in conflitto di interessi.


Jean Claude Rateau è il perfetto stereotipo del “Gallo” dei fumetti di Goscinny e Uderzo, alto, dinoccolato con baffoni sale e pepe, occhi melanconici che guardano chissà cosa.
La sua timidezza e riservatezza sono incredibili, per sentire la sua voce bisogna interrogarlo duramente.
Sembra arrivare da un altro secolo eppure guardando le sue etichette, molto belle a mio avviso, si intuisce che sa bene in che mondo viva, anche se la sensazione è che non ne approvi tutte le sue manifestazioni.
Unisce una grafica molto contemporanea a un uso ormai trentacinquennale della biodinamica, è del 1978 la conversione dei vigneti.




Assaggiando i suoi vini mi pare di intuire nel bicchiere, tutto questo suo lavoro sulla terra e la sua vitalità.
I suoi bianchi sono molto minerali, salati alcuni, sfaccettati e caleidoscopici, mai caricaturali, sempre affilati e pervasi da una acidità vitale.
Riesce a tirar fuori da un luogo, la Haute Cote appunto, un po’ marginale rispetto ai Gran Cru, spesso su pendii più ripidi e altitudini maggiori, dei vini delicati, in “levare”.
Timidi è la parola giusta quasi che il liquido fosse effige del carattere del vigneron.
Questo bianco ha una colore pallido, dei profumi delicatamente citronnè, caleidoscopici, mutevoli e la beva acido salata.
Ci deve essere silenzio per assaporarlo.
Uve provenienti da un vigneto esposto a est con impianto a “lira aperta” (una forma piuttosto anomala, penso, attendo delucidazioni) con sesto d’impianto non fittissimo.
Vinificato con fermentazioni spontanee (con buona pace di chi dice che i bianchi cosiffatti sono pochissimi) e affinato in legno piccolo usato per circa un anno.
Uno chardonnay nordico.
Elegante.
Degustato la prima volta con Nicola Barbato (alias il commercialista del vino) e Patrick Ricci, ci ha preso in contropiede proprio per questa esilità che abbiamo subito subito scambiato per evanescenza.
La seconda volta con più calma con Vittorio Rusinà che continuava a tuonare “dammene ancora! Mica lo vuoi tenere per domani!”.
Kempè

Luigi


martedì 9 settembre 2014

#piattidalode Canederli allo speck in brodo, da Kofler a Falzes

di Daniele Tincati


Erano anni che non salivo fin quassù, da dove pare di poter sputare in testa ai passanti delle strade di Brunico.
Ci è voluta una giornata da lupi "magnari", una fra le tante in quest'agosto ormai passato.
"Passavo qui vicino" e non ho resistito.
E c'è sempre pieno di gente, anche del posto, sinonimo della buona cucina.
Questi canederli allo speck, piatto di tradizione con ingredienti di recupero, e sempre poco costosi, ti riconciliano con il mondo, anche con una stagione del genere che ti costringe a chiuderti in casa, nonostante i luoghi da visitare e camminare attorno siano fantastici.
Peccato non abbia fatto anche la foto della torta di grano saraceno, altra inarrivabile specialità del posto, che mi sono scofanato dopo.
Ci ho bevuto una birra, ma hanno anche qualche discreto vino, servito per giunta anche al calice.

lunedì 8 settembre 2014

#cartoline da Cortona: DoDo 1010, Taverna Pane e Vino

da Riccardo Avenia.



Quindici agosto 2014.

Capita di essere sul lago Trasimeno - in Umbria - a pochi chilometri dal confine con la Toscana, solo per vedere un meraviglioso tramonto sul lago.



Tornando in territorio toscano, capita di arrivare in un'affollatissima Cortona durante la famosa "Sagra della Bistecca" e rimanere meravigliati dalla grandezza della gratella (14 metri di lunghezza), dove vengono cotte le "bistecche alla fiorentina", rigorosamente al sangue come da tradizione. Capita di andare oltre, passeggiando per le medievali strade del centro - da vero turista tra i turisti - dirigendosi decisi in un locale ormai famigliare: la Taverna Pane e Vino.


Sediamo e ordiniamo. Davanti alla ricca carta dei vini, non perdo tempo e vado sicuro sul vino della casa, il DoDo 2010 di Arnaldo Rossi - titolare della Taverna - assaggiato recentemente in questa occasione.

Sangiovese 100% allevato ad alberello, a pochi chilometri da Cortona. Viene vinificato in acciaio, assieme ad una selezione dei propri raspi, ed affinato in piccole botti di rovere, per un massimo di 800 esemplari, in formato da un litro.

Nel calice è proprio come me lo ricordavo: snello, dinamico nei profumi, perfettamente centrato sulle tonalità e le caratteristiche del vitigno, tra frutta viva, balsamicità, sfaccettature spezziate e terrose. In più, la vinificazione a contatto con i raspi - a mio parere - dona al vino una ruvidità decisa ma ben integrata, che amplifica i profumi ed il gusto, che appare succoso, ricco e nervoso. E che sicuramente, lo porterà molto avanti negli anni.

Insomma, una gran bella espressione di Sangiovese cortonese, una bottiglia da tenere presente anche nelle grandi occasioni.



In quattro, la bottiglia finisce in fretta ed il tempo vola. Mezzanotte è ormai passata da un po'.

Sedici agosto 2014

Saluti a tutti da Cortona!

venerdì 5 settembre 2014

#piattidalode lumache in civet con polenta, Lago di Laux


Il Lago di Laux ad Usseaux (TO) è un luogo del cuore prima di tutto, per cui il resto scivola in secondo piano.
Un laghetto piccolissimo ai piedi di una rupe verticale granitica alta qualche centinaio di metri, un albergo ristorante dei primi del novecento con gli interni in legno e carico di statuette anch’esse lignee di vacche e animali della montagna  che ci catapulta in mondo scomparso, lontano ormai anni luce da noi.
Ci andiamo perché la polenta è ottima, non credo di averne mangiata di migliore, e le carni e i salumi sono opera del mio amico Luca Gandione alias Macelleria Silvio Brarda di Cavour (TO) e sono sempre uno spettacolo di misurata e delicata bontà, ci andiamo anche perché è uno dei pochi posti dove si trova il Ramiè di Coutandin (nemo propheta in patria).
Da quest’anno finalmente i bicchieri da vino sono stati aggiornati  ed è sparito il piccolo bicchiere semisferico da osteria o yeah!
Il #piattidalode di oggi è lumache in civet con polenta.
Piatto semplice, quasi sciatto nell’impiattamento ma di un sapore impareggiabile. 
Le lumache sono perfette di consistenza, tenaci ma non stoppose, insaporite dall’intigolo vinoso giustamente agliato in perfetto abbinamento con la ruvida consistenza della polenta di farina di mais "pignolet" proveniente dal mulino La Cascina dei Conti di Osasco.
In abbinamento abbiamo bevuto il Gagin vino rosso di Daniele Coutandin.

Luigi

Poscritto
ringrazio Massimo Lovera per avermi fatto scoprire Il Lago di Laux e Alessandro Mecca per avermi introdotto alle delizie di Luca Gandione.


giovedì 4 settembre 2014

#cartoline Colombè 2009, Barbera del Pinerolese Doc, Le Marie, Barge (CN)



E’ un vino che proviene da Barge in provincia di Cuneo ma che ricade nella Doc Pinerolese.
I vigneti sono pedemontani, immersi nel verde con alle spalle chilometri di pinete e montagne.
La barbera Colombè di è una versione molto carnosa, strano che provenga da zone apparentemente così fresche, con profumi quasi sanguigni, aranciati e di macchia montana, il corpo così imponente mortifica leggermente la freschezza acida, il legno piccolo lascia un segno, leggero ma presente.
Kempè

Luigi



mercoledì 3 settembre 2014

#cartoline Clos Nicrosi 2008

da Niccolò Desenzani



Eccoci agli sgoccioli. La vacanza marina ripiega negli annali. C’è una bella sorpresa però che voglio raccontare.
Trovo una bottiglia di Clos Nicrosi nel frigo. Annata 2008. Questo significa con ogni probabilità che sta in quel frigo da almeno 4 anni!
Io penso che sarà andata. Tutte le teorie dicono: no frigo a lungo. Vibrazioni e grado di umidità sbagliato distruggono il vino.
Invece apro e saggio… bella grassezza sul filo tagliente tipico di questa etichetta. Uno sbuffo più di chiusura che di ossidazione. Il vino comincia ad aggiustarsi con l’ossigeno, si stiracchia, si alza, si riprende. Esce tutta la sua salinità sempre rimanendo con una base sontuosa. Queste due componenti con la netta acidità ancora viva spiegano il successo di questo vino, che ha sempre mantenuto una aura di mito nel panorama dei vermentinu corsi. Si capisce che c’è tanta vocazione e anche qui i valori sono ristabiliti nel bicchiere.
Un gran vino è sempre un gran vino.

Au revoir amata isola. A presto.

martedì 2 settembre 2014

#piattidalode grani duri dalla Sicilia






























In realtà più che un #piattidalode è un #prodottidalode.
Finalmente dopo quasi due anni che “bazzico” le paste di Molini del Ponte, ho deciso di parlarne.
Non so bene cosa mi bloccasse, forse il fatto che queste paste mi sono state omaggiate e ho sempre delle remore nel parlare di prodotti regalati.
Comunque sia questa estate ho imbroccato, anzi mia moglie ha imbroccato un paio di ricette semplicissime con cui esaltare il grano duro, antico Perciasacchi che usano per produrre le “Busiate”.


Quella che più mi ha convinto e il solo scriverne mi mette una fame incontenibile è le “Busiate con ragout di zucchine”.
Per la preparazione c’è bisogno solo di zucchine super (le mie provengono dall'orto montano) saporite e dolci con profumi quasi fungheschi (l’abbinamento con i funghi è da valutare e provare).
E delle Busiate.
Le zucchine a bastoncini vanno fatte saltare con solo olio (noi non amiamo né cipolla né aglio) a fuoco veloce.
Regolate la croccantezza degli zucchini in base al fatto che la pasta andrà passata in padella a finire la cottura per almeno quattro/cinque minuti.
Tenete le Busiate molto al dente e scolatele “acquose” nella padella degli zucchini e tirate la cottura aggiungendo eventualmente dell’acqua di cottura.
Tenete la pasta cremosa e se volete aggiungete un po’ caprino fresco a fuoco spento e mantecate.








Bon appétit

Luigi

Poscritto
Le paste di Mulino del Ponte a base di farine integrali “antiche” hanno sapori intensi di grano e una grande “mineralità” e si legano benissimo con le verdure e probabilmente con ragout carnei (cosa che noi non amiamo particolarmente).

Post poscritto
Mi vergogno non poco ad aver scritto di cucina, spero che Rossana Brancato (grande estimatrice e mia pusher di queste paste) e Stefano Caffarri possano perdonarmi.