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giovedì 31 ottobre 2013

La volpe e l'uva (remastered)

(di Andrea Della Casa)



E’ di pochi giorni fa l'intervista rilasciata da Maurizio Zanella, presidente di Ca’ del Bosco nonché del Consorzio tutela del Franciacorta.
In questa conversazione il buon Zanella se la prende (indovinate un po’) con i vini naturali affermando con presunzione che “…uno su dieci è fantastico per sei mesi e in seguito imbevibile. Gli altri nove non sono bevibili in partenza.” Ognuno è libero di esternare le proprie idee ed opinioni, ma da una persona autorevole del mondo del vino non ti aspetti frasi tanto capziose quanto offensive nei confronti di tanti produttori che lavorano seriamente e producono ottimi vini.
Come se qualcuno andasse a dire in giro che tutti i Franciacorta sono imbevibili. La generalizzazione è sempre figlia della superficialità.
Non contento continua con frasi fuorvianti “La fissa del naturale nasce da gruppi di appassionati più che dal grande pubblico: ma non si può pensare a un mercato composto unicamente da vini senza anidride solforosa”. Niente, ancora non è chiaro (e dire che se ne discute da un po’) che vino senza solfiti e vino naturale non sono sinonimi. Sono rimasti in 3 a pensarla in questo modo: lui, un famoso enologo e il direttore di una nota associazione enoica. Vabbè, gli antivinnaturistiaprescindere si barcamenano sempre tra questa falsa similitudine e il binomio vino naturale-aceto non avendo, evidentemente, altri argomenti da portare sul tavolo delle discussioni.
Sinceramente incomprensibile questo livido accanimento del patron franciacortino, di cosa ha paura? Se ad Erbusco lavorano bene e il loro prodotto è apprezzato sul mercato perché gettare fango sui colleghi(?) vignaioli? E’ un atto gratuito vile e meschino.
Non è che aveva ragione il lungimirante e sempre attuale Esopo?
È facile disprezzare quello che non si riesce a ottenere. Svilire cio’ che non si è in grado di fare è tipico del borioso, a volte un bagno di umiltà sarebbe auspicabile

mercoledì 30 ottobre 2013

Si vendemmia a Lessona. Di Niccolò


Sabato pomeriggio, dopo un comodo pranzetto famigliare lì nei pressi, mi presentavo a Lessona in cantina da Proprietà Sperino, in perfetto abbigliamento cittadino, durante l’ultimo giorno della grande vendemmia (per distinguere da tutte le incursioni prima e quelle ancor da fare per raccogliere i frutti di questo o quel vigneto in funzione del momento ottimale per la raccolta) del nebbiolo che sarà Lessona e in parte Uvaggio.
Devono aver pensato che ero un coglione! D’altra parte è stata un’opportunità dell’ultimo momento, una telefonata e via in cantina a seguire la magia della vendemmia. Da quelle parti il nebbiolo va obbligatoriamente lasciato maturare il più possibile, se si vogliono fare grandi vini.




E con sgomento mi sono trovato davanti agli occhi qualche tonnellata di nebbiolo appena raccolto, e non so come, ma questo spettacolo eccezionale mi ha indotto a fare alcune cose:
1) basire
2) assaggiarlo (in particolare gli acini completamente muffati)

3) immaginare il futuro vino
4) realizzare che sono un piccolo scribacchino di città che parla di questa creatura stupenda che è il Vino, senza esserne degno.

Il resto è un Luca De Marchi che riesce persino a trovare il tempo per darmi informazioni profonde sui luoghi e il vino, a offrirmi un bicchiere del suo Cabernet Franc fatto il loco. Insegnarmi a cernere i grappoli meno maturi e quelli affetti da marciume acido (devo dire quasi inesistenti) annusandoli, farsi pungere da uno dei millemila insetti che pullulavano fra i grappoli, e continuare a lavorare come se nulla fosse, mostrarmi l’antica bottaia e spiegarmi per filo e per segno il processo che avevo davanti agli occhi.

Io mi sentivo sempre più piccolo davanti alla nascita del vino.
sempre più piccolo
sempre più piccolo
sempre più piccolo











martedì 29 ottobre 2013

La mia prima vendemmia Colli di Parma - settembre 2013. Di Mauro Cecchi






























La mia prima vendemmia è l’emozione del  debutto tra i filari con un paio di forbici in mano.
La mia prima vendemmia è il taglio profondo ad un mignolo dopo appena dieci minuti. Record destinato a restare imbattuto per anni.
La mia prima vendemmia sono i profumi  travolgenti delle erbe selvatiche che spadroneggiano tra i filari.
La mia prima vendemmia sono gli assaggi dei grappoli dai vari vitigni per cercare di capirne le caratteristiche.
La mia prima vendemmia sono gli assaggi che se non stai attento diventano compulsivi perché l’uva, caspita l’uva da vino matura è davvero buona.


La mia prima vendemmia è rimanere folgorati dalla bellezza delle Badia di Torrechiara.
La mia prima vendemmia sono i movimenti da contorsionista per raggiungere i grappoli che si celano tra le foglie.
La mia prima vendemmia è  il grido di dolore che il giorno dopo sale da muscoli che nemmeno pensavi di avere.
La mia prima vendemmia è la bellezza delle viti centenarie alla Badia


La mia prima vendemmia è il compagno dall’altra parte del filare col quale intavoli discorsi, i più svariati.
La mia prima vendemmia è il compagno che ha puntato il tuo stesso grappolo col quale incroci le forbici in una sorta di duello rusticano.
La mia prima vendemmia è scoprire che il Babo non è un beverone per iniziati (cit.)


La mia prima vendemmia sono le mani appiccicose e colorate a fine giornata. Che neanche un serial killer.
La mia prima vendemmia è il pranzo dell’ultimo giorno dove riscopri un sapore dell’infanzia, il sugo d’uva.



La mia prima vendemmia è sentire che il vino del prossimo anno sarà un anche un poco (pochissimo) tuo.
La mia prima vendemmia è il vigneto a Crocizia circondato dal bosco e baciato dal sole.




La mia prima vendemmia è un grazie di cuore a Marco Rizzardi per avermi  regalato questa possibilità.

Mauro Cecchi

lunedì 28 ottobre 2013

Metti una cena friulana. Ovvero la rivincita del Terrano. Di Niccolò



« simpri jote, simpri jote e mai polenta e lat » (detto friulano)

Metti una cena friulana a base di jota e salame con l’aceto.
Finalmente un’ottima occasione per bere Terrano.
La mente corre a quei produttori, quelli dei macerati. Quelli del confine geografico e linguistico, che non sai mai da che parte stanno. Considerati anche per probabile disponibilità: Zidarich, Cotar, Fon, Rençel, Kovac, Skerk, Castelvecchio.
Reperisco infine Zidarich 2010, Skerk 2010, Fon 2009.
Ho amato molto bere questi vini insieme perché hanno personalità forti e molto diverse. Mentre il vino di Zidarich rientra perfettamente nel prototipo del Terrano, Skerk e ancor più Fon, vanno forse più verso la direzione dei vini universali.

Fon il più largo, morbido, sontuoso. Se è vero che all'inizio un po' il legno sembra costruirlo, poi si rivela vino di grandissima stoffa, beva e profondità. Goloso ed emozionante. Solo in fondo il carattere più noto del Terrano.

Skerk tiene insieme i due aspetti, la sontuosità da affinamento in legno e pure la nota acidula secca riesce a dare tridimensionalità in un modo che mi ha ricordato le migliori Barbera. Belle le note d'incenso che si sposano bene col concetto.

Per Zidarich la scelta è filologica, anche se un po' di legno tradisce l'intento. Il più asciutto, corto. Maggiore acidulezza e verdismi. Il meno alcolico dei tre, è vino che non stanca e può vincere in certi contesti di cibo, ma con gli altri un po' fa la parte del vinino (che non è denigratorio, sia chiaro).

La considerazione che viene spontanea è che questi tre vini sono perfetti ambasciatori del Terrano nel mondo. Ognuno porta godimento, benessere e arricchimento del bagaglio culturale gustativo. Devo ammettere che su Fon c’è stata emozione e non avrei pensato potesse capitare con un Terrano. Infatti la mia simpatia per questo strano vino ho sempre pensato fosse prevalentemente intellettuale e legata ai ricordi del Carso.
Ora mi direte che ci sono altri validi ambasciatori. E io sarei ben contento di avere un po’ di consigli. Posso aggiungere che Rençel era l’unico che avevo dato per certo, ché per me è un vino caro. Ma purtroppo era finito.

Bonus track wine: qualcuno si sarà chiesto che cosa centra la Schiava di Manincor 2012. Beh, uno degli ospiti è arrivato con quella bottiglia e m'è sembrata un ottimo warm up. E in effetti è un vino con un bel tocco elegante e una beva piacevolissima, per nulla banale.


PS Ho pensato a lungo all'abbinamento del Terrano con quei due piatti. Sebbene infatti nel Carso delle osmizza il Terrano (o al limite il Refosco) sia il Vino Rosso, non è comunque banale armonizzare un sorso con un piatto come la jota dove la base di crauti dà quella tipica acidità, compensata nel piatto stesso dai fagioli, le patate e l'insaporimento suino. In questo senso forse il Terrano di Zidarich è il più azzeccato perchè ripulisce molto bene la bocca e non dà sensazioni caloriche e tutto sommato mima in qualche modo la magrezza del piatto. Quindi abbinamento in parte per affinità.
Per il salame anche lì c'è la parte acetica, molto netta, in un piatto dove la nota dolce però è prevalente insieme a una forte salatura. Il sapore è pieno e secondo me i due vini più sontuosi rendevano bene emergendo tutta la loro freschezza e tridimensionalità. 

Ma queste son chiacchiere che trovano il tempo che trovano...


domenica 27 ottobre 2013

Fate


Due volte nella vita ho sentito parlare delle fate.
Quando ero piccolo ero solito passare le estati in una grande casa in montagna a Chiaves, nelle Valli di Lanzo. Una sera stavo sul terrazzo mentre mia nonna Francesca, detta China, stava sbattendo la tovaglia, io ero tutto preso dall'argomento masche e le chiesi preoccupato lumi su una vecchietta di una casa vicina che si diceva fosse una masca. La nonna non rispose ma con la mano indicò il sole al tramonto fra le montagne sopra Ceres e i colori del cielo, fra il rosa e l'arancio e disse "Là vivono le fate, laggiù dove vedi quelle luci che cangiano". Rimasi senza fiato, non ho dimenticato le sue parole anche perché furono uno dei suoi rari gesti d'affetto.
Sono passati molti anni e quest'inverno durante un giorno di nevicate intense andai, avventuriero che sono, a trovare Stefano Bellotti nella sua mitica Cascina degli Ulivi, sulle colline di Novi Ligure, uno degli avamposti dell'agricoltura biodinamica in Italia.
La neve aveva coperto ogni cosa, una sorta di magica sospensione temporale avvolgeva ogni cosa, dalle vigne ai campi, agli orti, alle mucche, alle oche. Dopo aver assaggiato i suoi meravigliosi vini e il suo pane cotto nel forno a legna, seduto con alcuni amici ad un tavolo di legno, ascoltai Stefano che parlava degli esseri elementari che operano silenti nel mondo vegetale.  Io chiesi di dirmi qualcosa di più e lui con la mano mi indicò un campo poco lontano "Vedi laggiù quel terreno che io coltivo da tanti anni in biodinamica, senza usare i terribili pesticidi che uccidono ogni forma di vita, beh devi tornare quando il grano è alto e maturo, e allora fra i fiordalisi e le spighe forse potrai scorgere le fate."
Nonna, Stefano, non vi dimenticherò mai, porterò sempre le fate con me.

illustrazione di Ernest Vincent Wright, 1896

sabato 26 ottobre 2013

il vino è...

“…il vino è una specie di museo vivente, il testamento di uno specifico pezzo di terra. Il tempo e le piante racchiudono la storia, la cultura e le pratiche sociali di ogni regione e sottoregione.”

venerdì 25 ottobre 2013

εὕρηκα (èureka) 2010 di Marabino in c.da Buonivini a Pachino



Era un po’ che non mi emozionavo di fronte ad un vino (piccola bugia la mia, perché qualche emozione l’ho avuta ma in conflitto d’interessi).
Comunque sia (e non capisco mai quale sia la causa e quale l’effetto) Niccolò mi ha chiesto  delle info su Marabino io sono rimasto vago, mi è piaciuto molto l’Archimede, meno , molto meno come mi avevano accolto nell’agosto del 2012.
Io avevo in cantina un Eurèka 2010 (Siracusa è vicina e Archimede, oltre che un piazzale per il posteggio è una presenza storica importante).
εὕρηκα leggo che vuol dire in greco “ho trovato”, scusate ma non provengo da studi classici e Wiki è la manna.
Io “ho trovato” la bottiglia e “ho trovato” nella bottiglia uno chardonnay di Pachino, leggermente macerato sulle bucce, in fermentazione spontanea, in acciaio, vinificato da Salvatore Marino un enologo che mi aveva subito molto colpito e con il quale ci è stata subito molta empatia.
Bisognerebbe fermarsi un attimo a parlare di Pachino e di quanto questo luogo sia affascinante e abbacinante, di luce, di terreni bianchi, di mare, di uliveti e vigneti ad alberello che si schierano come coorti di soldati d’altri tempi.
A Pachino esiste contrada Buonivini, alle spalle c’è l’altopiano Ibleo davanti il mare.
Credo che sia sufficiente la toponomastica a dare l’idea della vocazione viticola del luogo.
Questo vino lo assagiai almeno un anno fa e non mi fece impazzire, stasera l’ho aperto senza aspettative e invece…
Freschezza e sapidità (marchio di fabbrica del calcare di Pachino), affumicato e lievi ossidazioni nobili, amaritudini appena accennate, saporitissimo e succoso e leggero.
Per chi come me ha bazzicato in passato Chardonnay isolani infusi nel rovere e con gradazioni alcoliche prossime ai 16% vol, questo è una catarsi.
Sembrerebbe poter ulteriormente affinarsi ma in azienda non ci devono credere molto se lo tappano con il ricomposto!
L’annata il 2010 è di quelle mediamente eccellenti per cui il dubbio su quelle seguenti c’è ma stasera, bevendo non me lo sono posto, perchè sentivo echi di Francia.
Kampai

Luigi





giovedì 24 ottobre 2013

colline novaresi, nebbiolo 2010, Conti


Il Nebbiolo dicono gli ampelografi sarebbe nato in Valtellina o giù di li, poi si sarebbe diffuso in Piemonte a cominciare dal nord poi sempre più giu.
Si trovava anche in Monferrato ora non più.
I nebbioli del nord Piemonte mi affascinano, forse perché sono rari e io ho derive snob ma non solo, mi piace che la loro durezza sia non tutta nei tannini urticanti ma ben distribuita fra acidità viva e tannino.
Poi sono diafani, scarichi, esangui (di solito) molto nobili già nell’aspetto.
Non innalzano colori e concentrazioni muscolari.
Sono vini che li apri, li finisci e poi dopo un po’ dici buono!
Hanno una beva decisamente più semplice, friendly, gastronomica dei fratelli del sud.
Semplice però non vuol dire banale, i profumi sono confidenziali, appassiti, timorosi, rugginosi in sospensione nel liquido vivo e stupendamente acidulo.
Questa versione delle sorelle Conti è così ritroso ma gioviale, compulsivo come le produttrici.
E il territorio malgrado una certa marginalità mediatica è evidentemente vocato a produrre nebbiolo, da valutare e bere a secchi.
Kempè

Luigi


mercoledì 23 ottobre 2013

Vino e ristorazione e gastrocritica



Lo sapete chi sono i responsabili primi (non certo gli unici ma permettetemi un po’ di riduzionismo intellettuale) della inanità delle carte dei vini dei nostri ristoranti?
I critici gastronomici.
Perché mi chiederete.
Vado a rispondere.
Il critico gastronomico italiano contemporaneo è una strana entità un terzo pesce, un terzo mammifero, un terzo uccello, si orienta con sicurezza tra sottovuoti e tradizione della nonna (la loro nonna o quella dello Chef?) ha un fegato in Mylar, un apparato digestivo in polipropilene autorigenerante, mandibole diamantate, memorie sintetiche con innesti corticali, spettrografo di massa inserito nel cavo orale e disponibilità economiche pari al fondo sovrano del Qatar oppure è sempre in cima alla lista inviti dei gastro PR.
Gira instancabile i ristoranti di tutta Italia con puntate estere e scandisce con la precisione di laser tutti i cibi che circolano in sua prossimità, li fotografa anche! Con speciali fotocamere inserite direttamente nel bulbo oculare.

Un lavoro enorme, meritorio, un sogno per noi sfigati che: 
1)ingrassiamo al solo pronunciare “ristorante”;
2)mercoledì pasta e fagioli ed è già festa!;
3)non ricordiamo neanche cosa abbiamo mangiato a colazione;
4)non sappiamo pronunciare “petite patisserie”;
5)ogni giorno riceviamo la telefonata dalla banca per rientrare dal rosso;
6)nessuno ci invita alle “vernici” neanche quelle dei nostri parenti.

Comunque sia, noi invidiosi leggiamo le recensioni, avidi e golosi e sogniamo il giorno in cui un famoso chef o cheffa dopo averci sfamato, porterà il nostro cane a spasso per la città.
Al critico, però, spesso (quasi sempre), la carta dei vini sfugge dal suo scanner, anche se egli/essa è acclarato/a conoscitore/trice di vini (cosa invero un po’ rara), si distrae di fronte alla cornucopia di cibi, emulsioni, salsine, amuse bouche, avant dessert, piccola pasticceria, evidentemente la sovrastimolazione sensoriale è troppa e satura tutto l’hardware a sua disposizione, oppure è una forma di ritrosia, di rispetto nei confronti dello chef (cuoco o chef?) che spesso fatica a seguire cucina, sala e cantina.
Oppure critico e chef considerano il vino un accidente, magari un po’ fastidioso e decisamente complicato da gestire.
Per cui nelle note sulle guide e sulle pagine dei gastroblog la cantina latita, non c’è mai una stroncatura tipo: “ottima cucina, pessima carta dei vini che trascina il ristorante Xy alla mera sufficienza”.
Al massimo leggiamo: “carta dei vini da migliorare” oppure “carta dei vini sufficiente” ma il punteggio totale non vacilla.

Quasi sempre non si accenna nemmeno a che diavolo si potrà bere in abbinamento ai piatti.
Io tremo quando entro nei locali nuovi, spesso ricevo chiamate di Vittorio, Gil, Riccardo più o meno così: “mangi bene/benissimo però portati il vino da casa! Io faccio così se vogliono che ritorni”.
Io, come ci istigava a fare Simone Morosi, vado dove si beve bene e se si mangia bene tanto meglio.
E voi?
Luigi


Poscritto
Apprezzo molto il lavoro di educazione che Giorgio e Gilberto Grigliatti fanno con accanimento e generosità a favore del vino, loro hanno una visione della gastronomia complessa e articolata che comprende sia gli aspetti di cucina e materie prime sia il vino (meglio se “naturale”) sia l’organizzazione di sala e l’accoglienza, a loro devo molto e non ho parole sufficienti per ringraziarli.




martedì 22 ottobre 2013

Superiore di nome e di fatto, la Barbera di Ezio Trinchero. Vittorio Rusinà



Si parla troppo poco di Ezio Trinchero, dei suoi vini, piccoli capolavori da vigne antiche in alto sulla collina di Agliano Terme, forse per via del suo carattere riservato forse perché i suoi vini escono con qualche anno di affinamento, cosa a cui il mercato odierno che tutto trita e divora, giovane-giovane, non è abituato.
Ho grande affetto per i vini di questo vignaiolo, sorprendenti le sue barbere, favolosa la sua freisa che può ben affrontare lo scontro con il barolo, esoterici i bianchi che pochi conoscono.
Superiore questa barbera d'Asti lo è in molti sensi, intanto l'annata tuttora in commercio la 2007, il prezzo onesto (sui 12 euro in enoteca) e la potenza che ti assale quando la apri come se una bomba fosse stata compressa, l'intensità e la fitta struttura ti travolgono lasciandoti senza fiato, quasi incapace di trattenere la potenza eterica degli alcoli, come un gigante si erge davanti a me. Mi commuove questo impeto immenso, so che poi si aprirà umilmente, si piegherà alla mia debole comprensione, fra profumi di terre, di paste dolci, di frutti, di erbe officinali, scende in gola sorretta dall'acidità che convoglia al cuore i mille gusti amalgamati perfettamente.
Un meraviglioso vino rosso, un autentico #vinocolki

lunedì 21 ottobre 2013

Perchè l'estetica non è tutto, di Andrea Della Casa


Il grafico qui sopra evidenzia gravi epidemie (agricole) che si sono registrate nel corso degli anni a livello mondiale (non solo in merito alla vite ma a scapito dell'agricoltura in generale). Come si può ben notare dagli anni '50 agli anni '70 non si è riscontrata nessuna epidemia. No, non è stato un miracolo ma un motivo molto semplice e forse lo avete già indovinato. Già negli anni '30 e ancor più negli anni '40 si è avuto un enorme sviluppo dell'industria chimica legata alle problematiche belliche. Con la fine della guerra, tutti questi laboratori furono poi orientati verso l'agricoltura, per mettere a punto strategie di controllo chimico (vedi DDT etc...) per controllare le varie fitopatologie. Poi negli anni '80 ecco che riapparvero di nuovo i problemi con nuove malattie. Il DDT viene vietato in Italia nel 1978 (negli Stati uniti era già stato bandito da alcuni anni), ma non si creda che con le moderne tecnologie e le nuove scoperte in questo periodo non esistessero principi attivi altrettanto efficaci.
Il motivo di questa nuova ondata di epidemie è un altro e ben più serio: l'uso smodato dei prodotti di sintesi fatto nel dopoguerra che ha permesso la selezione naturale di ceppi resistenti di patogeni sempre più difficili da debellare.

Ora però è facile puntare il dito contro gli agricoltori e sacrificarli sull'altare della salute come il più indifeso dei capri espiatori. In realtà loro sono solo meri esecutori di un mercato che detta inesorabile le sue leggi. Il vero colpevole siamo noi. Siamo noi i mandanti. Siamo noi il mercato che ascoltano e a cui si rivolgono gli agricoltori. Ed eseguono le nostre richieste.
Già perché siamo sempre noi che vogliamo la frutta bella, grossa, lucida, senza le minime imperfezioni. E come provetti Dorian Gray ci preoccupiamo solo di ciò che appare.


Queste 2 pesche sono state colpite, con diverso indice di gravità, da Xanthomonas arboricola pv. pruni e non sono commerciabili. Mentre quella di destra può essere utilizzata dalle aziende di trasformazione (per fare succhi di frutta, marmellate), quella di sinistra non può essere usata in alcun modo, nemmeno per la distillazione. Può trovare un ruolo solo nel compost domestico (e qui potremmo aprire anche un discorso etico). Eppure il danno di questo batterio molto spesso è limitato a livello della buccia esterna, eliminata quella non intacca né la sanità né il gusto del frutto.
Con ciò non sono qui dire che dobbiamo aspirare a frutti bacati e incitare un'agricoltura anarchica dove il frutteto non viene curato e lasciato in balia delle avversità, ma sto dicendo che ci sono casi in cui un frutto seppur non bellissimo da vedere risulta comunque gustoso. E spesso molto di più di quelli "gonfiati" che ci fanno sfavillare le pupille sui banchi dei supermercato.
Se qualcuno di voi ha mai trascorso il periodo estivo a raccogliere mele o pere sa che queste pomacee vengono pagate dall'azienda conferitaria in base alla pezzatura e all'aspetto esteriore. Mele o pere di dimensioni ridotte, o un po' deformi, o con qualche accenno di cocciniglia, o con altre leggere imperfezioni vengono considerate di 2a scelta e pagate cifre irrisorie (eufemismo). Eppure al gusto non sono deficitarie.

mele piccole, butterate, ottime


Perché spesso l'apparenza inganna.



domenica 20 ottobre 2013

Sottostimate Proteine Vegetali di Rossana




I legumi sono i semi secchi delle varietà commestibili della famiglia delle Papilionaceae, piante accomunate anche da delicati fiori dalla corolla che ricorda le farfalle.
I legumi freschi e i baccelli interi, per l'elevata percentuale d'acqua, vengono anche classificati tra gli ortaggi.

Tra i vegetali hanno il più elevato contenuto proteico, maggiore del 20%, 27% nelle fave e nella soia arriva al 37%, i cereali integrali ne contengono la metà.
Sono proteine paragonabili quantitativamente alla carne.

Nutraceutica
Proteine di qualità discreta, ma carenti di amminoacidi solforati, Cisteina, Metionina e Triptofano.
In abbinamento ai cereali riusciamo ad ottenere tutti gli amminoacidi essenziali.
Una porzione di cereali e legumi fornisce un apporto lipidico trascurabile rispetto agli alimenti proteici animali ricchi di grassi saturi, non apportano colesterolo, non causano picchi glicemici, rispetto alla carne hanno maggiore quantità di Calcio e Ferro, che però risultano sfavoriti nell'assorbimento intestinale proprio dalle fibre, fornite in quantità tale da soddisfare i livelli d'assunzione raccomandati.
 La fibra alimentare presente nei legumi è espressa in modo rappresentativo da lignina e pectina, per questo motivo i legumi hanno un elevato potere saziante.
La soia e le arachidi hanno un alto tenore lipidico, ma generalmente è basso, compreso tra 1 e 6 g per 100 g.
Un'alimentazione ricca di legumi assicura il fabbisogno anche di preziosi elementi minerali come Rame, Selenio e Zinco, buono il contenuto di vitamine B1, B6 e Folati.
I germogli apportano anche vitamina C, incrementano la biodisponibilità del Ferro per riduzione dei fitati, ma si riduce la quantità di amidi complessi a favore degli zuccheri semplici.
Hanno un trascurabile tenore di sodio e sono adatti a chi soffre di ipertensione, ma non a chi ha patologie renali, per l'alto contenuto di potassio.
Gli oligosaccaridi sono responsabili della formazione di gas intestinale, non vengono degradati dagli enzimi digestivi e risultano disponibili per la flora batterica, tra i prodotti del metabolismo batterico ci sono anidride carbonica, idrogeno e metano

Le leguminose sono importantissime anche per la naturale concimazione del terreno, instaurano una simbiosi mutualistica con i batteri del genere Rhizobium:
prima della fioritura i batteri elaborano le sostanze nutritive radicali fornite dalla pianta, si organizzano in tubercoli, forniscono alla pianta azoto assimilabile, successivamente i tubercoli degenerano e l'azoto viene liberato nel terreno.
In terreni già ricchi d'azoto questa simbiosi non si instaura.

Straordinario è il patrimonio di cultivar italiane, una biodiversità che va tutelata, riscoperta e soprattutto degustata.
Esistono varietà che vengono coltivate in ristrettissime aree e non arrivano ai grandi canali di distribuzione, molto in questi anni ha fatto Slow Food, i Presidi hanno dato slancio al recupero delle tipicità.
Oggi i ceci e le lenticchie nere non si scartano più, ma sono emblema gourmet.
Umbria, Lazio, Toscana sono le regioni con la più alta produzione, anche Liguria e Campania stanno attuando politiche di valorizzazione.
Non mancano le corlivazioni eroiche:
Fagiolo di Lamon Igp, un borlotto delicatissimo del bellunese;
Piattella Canavesana tradizionalmente "maritata" al mais;
Fagiolo di Pigna coltivato nei piccoli ed impervi terrazzamenti di Imperia;
la vulcanica micro Lenticchia di Ustica che contiene moltissimo Ferro e non necessita di ammollo;
il Pisello nero della val di Vara.
Nell'altipiano ennese, in Sicilia, è in grande espansione la coltivazione di varietà quasi estinte come la Fava Larga e la Lenticchia Nera di Leonforte, tra i Presidi siciliani ci sono anche il Fagiolo Badda di Polizzi e il Cosaruciaru di Scicli.

Fagioli di Ustica
Lenticchie, cicerchie, fave, fagioli, ceci, piselli, roveja, lupini sono spesso assenti nella nostra dieta.
La mancanza di tempo è forse la scusa più gettonata per non cucinarli, basta organizzarsi anche solo una volta a settimana per prepararne quantitativi extra da surgelare o da conservare in frigo per un paio di giorni.
Oltre ai ceci, anche fave e fagioli sono ideali per preparare Hummus e Falafel;
le lenticchie e la roveja possono arricchire curry di verdure, si sposano con le note dolci del latte di cocco e con i sentori esperidati dello zenzero e del lemongrass.
Il piatto che vi propongo oggi ha il mio stesso carattere fusion:
come base una classica zuppa di ceci, arricchita da sottili falde carnosi peperoni rossi e dall'aroma del pimenton de la Vera, una spezia che amo molto per la sua dolcezza affumicata, originaria della regione spagnola dell'Extrema Dura, si utilizza per i chorizos e il pulpo a la gallega, (credo di avere una latente nostalgia spagnola in atto...).
Ho usato una nuvoletta di soba fritti per decorare e per dare croccante brio alla base cremosa, all'assaggio il sapore caratteristico del grano saraceno si fonde armonicamente.

 Ceci, soba & pimenton


Per quattro persone:

500 g di ceci cotti
700 ml di brodo vegetale caldo
1 cipolla
1 patata
1/2 costa di sedano
60 ml di passata di pomodoro
sale, pepe rosso scuro di Sarawak, olio evo.

falde di 1 peperone rosso già cotto

50 g di soba
500 ml di olio evo per la frittura

Pimenton de la Vera


Per i ceci:
controllare che non ci siano impurità, lavarli accuratamente sotto l'acqua corrente, lasciateli in ammollo con 30 g di sale grosso per 8-24 ore.
Sciacquateli e cuoceteli partendo da acqua a temperatura ambiente, aggiungete aromi se preferite, salando a fine cottura.

Stufate la cipolla tritata in 40 ml di olio evo, salare, aggiungere poca acqua se serve, unire il sedano, io lo aggiungo intero e lo elimino a fine cottura, la patata pelata e tagliata a cubetti, i ceci, la passata di pomodoro, lasciare insaporire per 5 minuti e poi bagnare col brodo caldo.
Continuare la cottura per circa 15 minuti dolcemente.
Regolare di sale e pepe e frullare con il frullatore ad immersione.

Lessare per 2 minuti i soba, raffreddarli in acqua fredda, asciugarli su carta assorbente da cucina e friggerli.

Versare la zuppa nei piatti, decorare con le falde di peperone, con un pizzico di pimenton e le nuvolette di soba.





Altre fonti di proteine vegetali sono la quinoa, il grano saraceno, l'amaranto che non contengono glutine.
Anche le mandorle hanno un alto contenuto proteico, 22 g, ma superiamo le 600 kcal per 100 g.
Proteici, ma calorici, i semi di zucca, di girasole, di chia e le noci
Tra le alghe vanno valutate la spirulina, wakame, kombu, dulse, nori; sono fonte importante anche di omega-3 e di iodio, sconsigliate a chi ha problemi tiroidei.
Gli spinaci crudi e le Brassicaceae sono gli ortaggi che ne apportano maggiore quantità.


Rossana


venerdì 18 ottobre 2013

Quando il cibo in scatola era affascinate di Vittorio Rusinà



Quando ero piccolo non andavo all'asilo, i miei genitori mi tenevano sotto il banco del loro negozio di frutta e verdura, di primizie dicevano orgogliosi, c'era in effetti un ingegnere importante che diceva sempre che il loro lavoro equivaleva ad una laurea.
Il mio mondo era stare seduto sui sacchetti di carta gialla, facevo finta di leggere Topolino e spesso sognavo di viaggi guardando le palme, i dromedari, le oasi che un imbianchino-pittore aveva dipinto ai margini della volta in cambio di merce. I datteri da allora sono per me una prelibatezza, una volta si mangiavano solo a Natale, lucidati con lo zucchero e attaccati a finti rami di plastica bianca.
Ero affascinato dalle scatole di conserve, ce ne erano poche allora in negozio e luccicavano fra le cassette di frutta e verdura, fra tutte ricordo l'antipasto Galfré, memorabile il loro tonno e funghi porcini, me lo sognavo, non vedevo l'ora che i miei lo aprissero al desco di casa.
Un'altra scatola di latta che mi affascinava era quella della macedonia di frutta sciroppata, prodotta da multinazionali americane che oggi faccio fatica a nominare, tipo Del Monte, ricordo che cercavo subito di accaparrarmi le ciliege magicamente senza nocciolo, di un rosso strano, leggermente slavato.
E c'era anche la bottiglietta di vetro con la rubra, prodotta dalla famosa Cirio, quanto la amavo con le patatine e il bollito.
Ma su tutto prevaleva la dolcezza e la bontà dei fruttini di mela cotogna della Zuegg, ah li adoravo, veloce toglievo il cellophane che li avvolgeva e li mangiavo magari con un pezzo di pane o un rubatà.
Mangiavo tutta la frutta e tutta la verdura, mai avuto antipatie verso le cipolle o i carciofi, verso i cachi o i pompelmi, ma il fascino maggiore lo avevano i barattoli di conserve.
E' passato molto tempo da allora, le multinazionali del cibo sono bandite dalla mia tavola, sono un sostenitore del cibo artigianale e naturale, nella mia tavola c'è sempre tanta verdura e frutta fresca, possibilmente locale come provenienza, le scatole di latta non mi attraggono più, sono poi andato a vedere le oasi nel Sahara dal vero e tornato a casa ho chiesto di far parte di questo piccolo grande bar di amici.


giovedì 17 ottobre 2013

Nosiola sulle bucce, ed anfora, in una sola parola: Fontanasanta - Foradori - di Riccardo Avenia



Istintivamente associo Elisabetta Foradori al Teroldego. Vitigno principe della Piana Rotaliana (scrissi qualcosa qui), soprattutto nella sua più personale interpretazione: il Granato. Ma la Nosiola? Potrò da oggi associare allo stesso nome, questo vitigno dalle origini sconosciute, ma da sempre coltivato in Trentino che, tra le altre cose, viene tradizionalmente usato per il ricercatissimo ed apprezzato Trentino Vin Santo? Cosa ci si può aspettare da questa uva, nelle sapienti mani di Elisabetta?

Basta dire che l'agricoltura è basata sui principi della biodinamica, che il mosto/vino, passa 6/8 mesi in anfore non interrate con le proprie bucce e con i propri lieviti. Che non vi è nessun controllo della temperatura. Che ne passa altri 2 in botti di acacia. Che non si effettuano filtrazioni, tantomeno stabilizzazioni, per rendersi conto che ci si sta probabilmente avvicinando ad un grande vino bianco "macerato" originario della piana Rotaliana.

Poi c'è l'anfora, che mi affascina e che dona al vino quel qualcosa di indubbiamente dinamico, vitale ed intrigante. Ma che ancora non riesco a decifrare.

Il Fontanasanta 2009 (prima annata uscita in commercio) è oro cangiante, oleoso e compatto. Inizialmente sfuggente. Con alcuni gradi in più - non fate il mio errore, la temperatura ideale di servizio, è quella di un giovane vino rosso - apre su fiori in macerazione, frutta gialla esotica, agrumi, olive verdi, peperoni ed erbe aromatiche. Il tutto arricchito da intensi sbuffi minerali. Un caleidoscopio di profumi di straordinaria complessità. Con l'evoluzione vira all'acciuga in salamoia, alla salvia, alla mentuccia ed a un ricordo di liquirizia. L'idea, è quella di una perfetta rotondità olfattiva.

Il sorso è salino, che sfiora il piccante, con tannino e freschezza ben delineati. Allo stesso tempo è denso, glicerico, setoso ed avvolgente. Dinamismo, equilibrio, con il finale davvero lungo. Un vino con tante cose da raccontare, persino ad altri vini della stessa tipologia. 

Ecco cosa ci si può aspettare: un bicchiere di assoluta eleganza innata. 25 € che rispenderei anche domani.


P.s. L'unica nota dolente, è la bottiglia: troppo pesante. Questo, a mio parere, va in conflitto con i principi e la filosofia della produttrice.

mercoledì 16 ottobre 2013

La Grande Colline di Hirotake Ooka. Di Niccolò



Cosa ci fa un giapponese fra le ripide colline del Saint Peray a sud del Nord della Valle del Rodano?
Titanicamente pianta barbatelle* che poi la pioggia gli spazza via, e nel frattempo mette in pratica in proprio la divina arte della vinificazione imparata in numerosi anni di apprendistato, prima nelle scuole di Bordeaux e poi a “cantina” da grandi vigneron.
Qualche vigna già ce l’ha o l'affitta o ne compra le uve, di marsanne e roussanne alla base del Saint Peray (AOC), e di altre tipiche della Valle, grenache e syrah. Ma non disdegna neppure il moscato di Amburgo, se si tratta di dissetare.
Ma io son qui a dirvi dei frutti rossi del suo lavoro, di un Saint Joseph e di una cuvée G, Grenache in purezza, e di un connubio fra i due che ormai ha conquistato le cave dell’esagono dove liberté-égalité-fraternité sono praticate attraverso la beva: Le Canon!

Il Saint-Joseph 2009, di impostazione molto classica, è sicuramente il più lavorato dei tre vini. La ricerca di un sorso profondo e balsamico, in mezzo alla speziatura del Syrah, riesce, ma rimane un po’ statico. Comunque un bel vino, che forse risente un po’ delle viti giovani e di qualche passaggio in botti leggermente più marcanti rispetto alle altre etichette.

La cuvée G 2009, ecco la Grenache. Al di là che io sia un fan del vitigno, che poi le viti siano già sui quaranta, questo è un vino per me davvero azzeccato. La leggera macerazione carbonica e probabilmente botti fortunate, portano nel bicchiere un sorso che declina la golosità del vitigno in un bellissimo connubio di acidità e sentori di cantina. Sì, muffe, per le quali ho proprio un debole. Dunque grande incisività e freschezza che spingono alla beva con quel giusto di ruvidità e a tratti qualche scossetta carbonica che dinamizza il sorso.

Le Canon Rouge 2012, il vin de soif di casa Ooka, è un connubio fra i due vitigni, vinificato con una straordinaria sensibilità e arriva nel bicchiere ancora scalciante. Un vino saporito e godurioso che persegue un’idea molto bella. L’equilibrio in movimento e la beva disimpegnata. Un gioiellino.

Tutti i vini di Ooka non vedono SO2 aggiunta e la vinificazione** è meticolosa per evitare inconvenienti. Questo lavoro si sente secondo me molto bene nel bicchiere dove la ricerca della giusta misura è percepibile. Tutti e tre i vini entrano nel corpo dando gioia e facendosi ben accogliere, questo anche grazie a gradazioni alcoliche basse, probabilmente figlie della macerazione carbonica, tuttavia utilizzata anch’essa in modo misurato.

* I terreni disboscati e piantati a vite sono nella zona AOC Cornas, appena sopra la famosa parcella Les Reynards di Thierry Allemand, di cui Ooka è stato allievo e collaboratore.
** Tutti i vini fanno cinque giorni di macerazione carbonica, cui segue un pigeage quotidiano, fatto proprio coi piedi, per dieci giorni. Il Saint Joseph poi fa due anni in barrique, mentre Le Canon fa solo vetroresina per sei mesi. La cuvée G sta in botte "quanto serve" (le parole sono di Ooka, riportate dagli amici di Jardin du Vin) e prima dell'imbottigliamento riposa anch'essa un po' di tempo in vetroresina.

martedì 15 ottobre 2013

Fattoria di Bacchereto, Terre a mano, Carmignano 2009


Fino a quaranta anni fa Carmignano con il cabernet sauvignon e l’enclave di Focara col pinot nero erano gli unici vini italiani (forse non proprio gli unici ma sicuramente quelli con più ufficialità e storicità), a sud del Po per i quali era “tradizione” avere dell’”uva francesca” (francese) nella composizione.
Storie di ubbie di Regine di Francia (Caterina De Medici) nell’epoca rinascimentale per Carmignano e di occupazioni napoleoniche per Focara.
Piccola intro for dummies che mi permette di parlare di Cabernet Sauvignon (in taglio con Sangiovese e Canaiolo) senza sentirmi in colpa per le mie fascinazioni verso questo vitigno, d’altronde se già nel ‘500 piaceva a Caterina De Medici chi siamo noi per opporci!
Chissà se qualche pezzo di elica del dna di questo cabernet odierno, arriva da quello Rinascimentale?
Mi piace pensare che qualche traccia ci sia.
Ma credo di no. Troppe fillossere, troppi vivaisti, troppa scienza è passata sotto i ponti dal 1500 a oggi.

Alla Fattoria Bacchereto si sono fatti affascinare dalle esperienze “franzose” sulla densità dei vigneti e leggo nelle info aziendali un incremento di fittezza d’impianto nei vigneti più giovani (senza però le forzature di 10.000 ceppi per ettaro) che sono stati piantai a 5.500 c/ha, quasi il doppio dei vigneti vecchi.

Il discorso, molto in auge una dozzina di anni fa, sulla densità di impianto mi pare essersi spento nella attuale diatriba fra lieviti indigeni vs secchi, naturale vs convenzionale, quindi con un semplice sillogismo fra dieci anni saremo qua a parlare di altre cose (chissa quali?).
In realtà questi ragionamenti sul numero di piante per ettaro mi ha sempre molto interessato, i coniugi Bourguignon sostengono che in epoca prefillosserica con fittezze impressionanti, 14.000 c/ha, nella Champagne si produceva un pinot noir molto colorato.
Marcell Deiss ha sperimentato i 20.000 c/ha miscelando anche le cultivar, valori simili anche a Bordeaux e in altri posti qua e là in Francia.
Di sicuro la fillossera e la conseguente dipendenza dai vivaisti hanno molto rarefatto la presenza di piante in vigneto ma questo cosa ha significato dal punto di vista qualitativo? E che risultati hanno ottenuto chi ha di nuovo provato a infittire il vigneto? Non è dato sapersi oppure è passato un po’ in secondo piano in questi anni litigiosi.

Comunque sia il Carmignano 2009 a me è piaciuto parecchio, credo piacerebbe anche a Riccardo e Eugenio perché è un vino “robusto” (molto d’antan il termine vero? Quasi quanto “di corpo” che userò nel prossimo post, promesso) al limite del masticabile con attacco dolce e piacevoli speziature, tannini rotondi dei sangiovese del caldo, il colore intenso urla densità ma i riflessi cangianti annunciano vivacità.
Scivola in bocca parlando di seta e pizzica con leggera memoria vegetale.
Ho parecchio goduto di questa intensità.
Kampai


Luigi