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lunedì 30 settembre 2013

Vesna Nature, Metodo classico di Stefano Milanesi


Un Blanc de Noir in salsa oltrepadana.
Cento per cento Pinot nero che viene selezionato in vigna e poi pressato con spasmodiche attenzioni senza estrarre troppo, con rese al quintale molto basse.
Ciò che mi ha colpito è il nitore di questo vino ricco, saporito ma sempre bilanciato da grande freschezza che non appesantisce il sorso.
Devo ammettere che io amo la vinosità dei BdN per cui questo esempio nostrano mi ha molto intrigato per la sua ricchezza senza l’opulenza tipica della nostra latitudine, sarà che il zero dosaggio esalta la vivacità.
Vinificato con lieviti indigeni, senza filtrazioni, 18 mesi e più sui lieviti (dipende dagli assaggi di Stefano).
A me è piaciuto molto.
Kempè

Luigi


domenica 29 settembre 2013

Curtefranca Doc Bianco 2008, etichetta nera de Il Pendio di Michele Loda


Ne ho sprecata una, la prima non l’avevo capita.
Troppo esile, magro, salato, tagliente per essere uno sciardonnè italiano, avevo pensato.
A ripensarci ora, mi flagello con rami di salice e mi cospargo la testa di cenere.
Per l’errore madornale che commisi e a cui, ora, cerco di porre rimedio.
E’ un vino in levare e per apprezzarlo bisogna mettersi in ascolto, aspettare, lasciare che si apra.
Scontroso e a tratti duro ha bisogno di tempo per concedersi.
E poi la mineralità diventa quella complessa di sale, mieli amari e sentori gessosi.
Acidità siderale e profumi di pietra focaia e affumicato e lievi dolcezze.
In ritardo ma me ne sono innamorato e mi piacerebbe provarlo in parallelo con alcuni bianchi di Borgogna.
Vinificato e affinato in acciaio nella microcantina artigiana a Monticelli Brusati (BS) di Michele Loda, uve provenienti da vigneti collinari con un palmo di terra sopra la roccia calcarea.
Kempè

Luigi


sabato 28 settembre 2013

Il pranzo della domenica































In mezzo a tante feste al ristorante, ai meeting di blogger, alla cucina dei soliti chef stellati, ai 
proclami delle aziende sponsor, alle pagine culinarie dei grandi giornali, alla ipocrisia di finte amicizie culinarie, il pranzo della domenica fa fatica a emergere, eppure è sempre stato lì che uno alla fine ritorna, ai ricordi dei nonni, ai sorrisi dei genitori e agli sguardi dei figli.
Il pranzo della domenica è una antica tovaglia bianca di lino "anche il nonno Vittorio la usava, ti ricordi Domenico quando venisti a pranzo la prima volta dai miei? era sempre il nonno che apparecchiava la tavola come se fosse festa, tutti i giorni anche quelli di lavoro"
L'insalata russa è quella con le uova bio e le verdure fresche cotte una ad una, le carote a forma di piccoli fiori, intagli vegetali in un trionfo di maionese, subito si erge una discussione sul poco limone e sul poco sale usati, il sale fa male, però deve essere in equilibrio ribatto a mia figlia che avendola preparata mi guarda corrucciata, ah potevo evitare cotanta pignoleria, penso negli anfratti del cuore, la adoro questa figlia in un abito leggero dai colori pastello, così brava in cucina. 
Il salame crudo, comprato da Italì, così nonna Pinuccia chiama Eataly, è di quelli buoni, ricorda quelli del Monferrato, terra degli avi, e finisce in un battibaleno accompagnato dai croccanti grissini integrali fatti a mano.
Gli agnolotti di magro comprati nel famoso pastificio di via Villa della Regina, dove vanno anche i gran signori, sono in onore della mia sponda vegetariana "mi raccomando papà non mangia più la carne", il condimento è il burro di un alpeggio di Viù a cui affittiamo dei prati lassù sui monti e la salvia è appena raccolta nel giardino. Qui è usuale citare di nuovo il nonno Vittorio che preparava gli agnolotti con un ripieno di arrosto di coniglio e cardi, ah come li faceva lui più nessuno mai, dozzine di agnolotti fatti a mano, una gioia, le mitiche dozzine.
In un istante mia madre riporta in vita il bisnonno che arrivava dalle vigne attraversando gli orti con un cavagnin pieno di tartufi, arriva prima di lui buonanima il loro profumo.
Ecco le patate tagliate a piccoli pezzi e cotte al forno con il rosmarino, sono sempre un trionfo su ogni tavola, uno se ne mette nel piatto guardando quante se ne è messe il vicino, quasi contandole, preziosissime patate al forno, nulla cambia da quando ero piccino, l'avidità dei miei occhi è più grande del mio stomaco.
Gira il vino, è una bottiglia di Barbera di Giuseppe Ratti, una delle sue ultime, il 2010, etichetta scritta a mano, di una semplice bontà che la rende vera "mi ricorda quelle che la nonna Luisa teneva tanti anni fa in cantina"  dice mia madre e questo per me è il più bel complimento che potessi ricevere, i miei bisnonni il vino se lo facevano ancora loro da piccole vigne sulle colline di Viarigi oltre il campo di tamburello.
Non può mancare il grillet con l'insalata comprata al mercato biologico di piazza Lamarmora in centro, "è un pochino dura"  dice mia madre e in confronto a quella pronta-lavata delle buste effettivamente è più dura, ma forse è solo più vera.
Il trionfo del pranzo è la torta, di pan di spagna, difficilissimo da fare in casa, spiega mio figlio Andrea, il pasticciere di famiglia, crema chiboust e lamponi freschi "i lamponi hanno un gusto ben preciso e sono perfetti ad esaltare una torta" spiega a noi mortali ormai assuefatti dai dolci industriali e dai finti croissant da bar.
Chiude il caffè di torrefazione equosolidale, no multinazionali at my home, neanche quelle con cui ama convivere larga parte dei posti che frequento durante la settimana, la domenica no, la domenica c'è il pranzo della domenica.

Pranzo della domenica 22/09/2013 in quel di Cavoretto, Torino, il tempo era bello, il clima  ancor caldo e si poté mangiare fuori in giardino, senza zanzare, come per miracolo.

Come dice Francesca Angeleri nella sua nuovissima rubrica su La Stampa, da seguire con attenzione, ogni #pranzodelladomenica è unico. Al Bar degli Amici dare risalto alla cucina di casa è la nuova parola d'ordine.

venerdì 27 settembre 2013

Emozioni di farina integrale macinata a pietra di Rossana

Pane di farina Russello Molini del Ponte

Ruvida e setosa allo stesso tempo,
non ti stancheresti mai di averla tra le dita,
impastarla, 
darle forma,
aspettare che si animino enzimi e lieviti e prenda vita.

La molitura a pietra naturale, la sola rispettosa degli enzimi dello strato aleuronico propri del grano, necessari per la sua digeribilità e che prevengono l'intolleranza al glutine.
Glutine che è presente in percentuale abnorme in farine di forza utilizzate comunemente nella panificazione, massima resa, minimo sforzo.
La macina a pietra preserva ed attiva anche l'enzima fitasi che ha un ruolo chiave nell'assorbimento intestinale di molti nutrienti e di preziosi minerali come calcio, magnesio e ferro propri del grano integrale.
Inoltre questo tipo di molitura consente la perfetta amalgama dei lipidi essenziali del germe di grano con gli amidi e le proteine.
Grani antichi che hanno caratteristiche distinte e peculiari, che si estrinsecano nella percezione tattile e gustativa della farina che ne deriva, che trasformata, regala alimenti dal profilo nutrizionale completo, profumo ormai inedito di grano e profondo appagamento al palato.
Basso indice glicemico, facilità di digestione, senso prolungato di sazietà dovuto alla più lunga masticazione e all'apporto di fibre.
Nutrendovi correttamente percepirete anche di avere più energie da spendere.


Ci sono tantissime varietà di grani autoctoni da riscoprire e rivalutare, biodiversità che va difesa e garantita tramite il consumo consapevole.
L'emozione che le materie prime sanno regalare, il profumo del grano, che svela sentori di frutta secca, nocciola, mandorla grazie agli acidi grassi del germe che non vengono ossidati dalla macina a pietra, lasciano un ricordo indelebile nella nostra memoria e difficilmente riusciremo ad apprezzare ancora prodotti di qualità nutrizionale inferiore.


La farina integrale biologica macinata a pietra naturale è l'unica che può dare alimenti di alto valore nutrizionale ad identità genetica nota.

Ho una lunghissima lista di tanti piccoli mulini a pietra che vorrei visitare per conoscerne i prodotti, ad esempio mi incuriosiscono tanto quelli del Mulino Sobrino. Le farine che utilizzo abitualmente e ho meglio valutato sono le farine Petra, Molini del Ponte e Mulino Marino.
Farine vive, che stimolano a sperimentare tecniche per esaltarle.
Segnalatemi le vostre preferite!
  • Le farine Petra Molino Quaglia, adatte anche a chi non ha confidenza con la panificazione. Profumano di grano, hanno una resa straordinaria e praticamente si impastano da sole! Un sapore ricco, fragrante e una grande sofficità nonostante le fibre. Le farine Petra si adattano ad ogni ricetta, la Petra 1 ad esempio, è ottima per infarinare alimenti prima della frittura e ne bastano circa 200 g per legare 1 kg di patate per gli gnocchi.
Utilizzando il metodo di cottura scoperto grazie @toccodizenzero si ottiene un pane perfetto anche nel forno elettrico di casa.


Manjari Chocolate Bread

 

 

300 g farina 0 Petra Buon Pane
200 g di semola Petra
1 cucchiaio di miele di lavanda Jean-Louis Lautard
400 ml circa di acqua non clorata a 20°C
100 g di lievito madre (o 5 g di lievito di birra fresco)
12 g di fleur de sel
50 g di cioccolato 64% Manjari Valrhona fuso.
Semi di vaniglia Tahiti

Procedimento
Nella planetaria col gancio ad uncino miscelare il lievito, miele e metà dell’acqua.
A velocità 1 unire le farine setacciate e la restante acqua necessaria, il sale, i semi di vaniglia e aspettare che l’impasto incordi.
Unire il cioccolato fuso a filo e lasciare che incordi nuovamente.
Su un piano di lavoro infarinato con la semola dare una serie di pieghe all’impasto, portando dei lembi esterni verso il centro, fino ad ottenere una palla liscia e non appiccicosa.
Lasciare lievitare avvolto da un telo di cotone o lino infarinato.
Il tempo dipende dall’umidità e dalla temperatura ambiente, il mio impasto ha avuto bisogno di sei ore.
Il volume deve almeno raddoppiare.
Riscaldare il forno al massimo, in modalità statica.
Preparare un contenitore con dell’acqua che possa andare in forno, l’umidità servirà a non far indurire subito la crosta del pane e a permettere una migliore lievitazione in forno.
Infornare la padella Twin® vuota per riscaldarla, per circa 5 minuti.
Rovesciare il pane all’interno, infornare abbassando la temperatura a 220° per 30 min.
Eliminare il contenitore dell’acqua e proseguire la cottura a 180°C per altri 10 min circa, lasciando lo sportello del forno semiaperto.
Se riuscite a resistere al profumo, aspettate che raffreddi su una griglia prima di affettarlo.
Ottimo sia con la confettura che con il foie gras, o formaggi erborinati.




    Pane di farina Biancolilla Molini del Ponte


  • Le farine Molini del Ponte di Castelvetrano (TP) esprimono la ricchezza delle varietà di grano duro autoctono siciliano, grani antichi che regalano farine che vanno idratate preliminarmente, per dar modo alle fibre di assorbire correttamente l'acqua e facilitare la formazione della maglia glutinica. Anche la semola integrale per couscous è un prodotto straordinario: granelli prismatici che riflettono la luce come micro diamanti gialli grezzi, l'ho utilizzata durante una lezione di cucina tenuta dal grande chef Pino Cuttaia a Uovodiseppia, in pochi e semplici gesti appena appresi, ho realizzato un couscous che mi ha profondamente colpita all'assaggio: per consistenza, sapore e profumo di grano.
    Semola integrale di grano duro siciliano per couscous Molini del Ponte




  •  Le farine Mulino Marino hanno una granulometria più fine rispetto a tutte le altre provate, vasta scelta di cereali, legumi e anche farina di castagne. Le ho utilizzate sia in purezza sia in miscela. Sono estremamente aromatiche in cottura, come le altre hanno un elevato potere d'idratazione e danno ottimi risultati sia nella panificazione sia in pasticceria. 
Utilizzando una farina multicereali ho realizzato dei friabili biscotti, sostituendo una quota di burro con pasta pura di mandorla, per enfatizzarne l'aroma, ho profumato con fava tonka e scorza di limone. Come al solito ho utilizzato poco zucchero a velo, che potete aumentare a piacere fino a 140 g o farcirli con la vostra confettura preferita, consiglio quella di pesche.
Ho utilizzato un estrusore per biscotti per formarli, ma potete utilizzare una sac à poche, oppure stendere l'impasto tra due fogli di carta forno e lasciarlo raffreddare in frigo prima tagliare i biscotti con il cutter scelto.

 Frollini alla mandorla e farina Sette Effe

 

80 g di burro tradizionale morbido
50 g di pasta di mandorla pura
70 g di zucchero a velo
scorza di limone gratt.
1 fava tonka gratt.
1 pizzico di fleur de sel
1 uovo intero
250 g di farina Sette Effe Mulino Marino

Procedimento
In planetaria col gancio K in gomma lavorare il burro, la pasta di mandorla, lo zucchero a velo per 5 min aumentando lentamente la velocità, sbattere l'uovo con il sale e unirlo al composto in più riprese a bassa velocità, unire gli aromi, la farina setacciata e impastare brevemente, fino ad ottenere un composto legato.
Formare i biscotti, vi serviranno due placche da forno, porli in frigo almeno per mezz'ora.
Preriscaldare il forno e 170°C in modalità statica, infornare una teglia per volta, cuoceranno in circa 10 min.
Una volta raffreddati vanno riposti in un contenitore ermetico, si conservano fino ad una settimana.


Le farine integrali macinate a pietra hanno una più breve data di scadenza, proprio per il loro valore aggiunto, la presenza del germe di grano, conservatele ad una temperatura di circa 15°C e consumatele in fretta per assaporare al massimo le loro eccezionali caratteristiche.


Rossana

giovedì 26 settembre 2013

Meantime India Pale Ale. Di Diego de La Cuerva



Se avete partecipato a qualche degustazione di birra, sicuramente o quasi, vi sarete imbattuti nello stile denominato India Pale Ale e vi avranno raccontato la storiella della birra che partiva da Burton On Trent (UK) per giungere alle gole assetate delle truppe in missione coloniale in India;  queste birre dovevano sopportare le pene dell’inferno per arrivare a destinazione e per far ciò occorreva che fossero ben attenuate (pochi zuccheri residui) e ben luppolate (il luppolo è un antisettico ed aiuta la birra a conservarsi).
Ad oggi questo è uno degli stili più in voga, dopo il rinascimento americano sono giunte sul mercato IPA sempre più estreme, tanto che si è giunti a coniare il termine Double IPA laddove la luppolatura e gli IBU ( indice di misura d’amaro) diventano molto consistenti.
In tutto questo marasma di luppoli e amaro la Meantime Brewery, birrificio di Greenwich che da circa un decennio si è messo a capo della scena rivitalizzata inglese, ha deciso di tornare alle origini proponendo una versione che richiama a gran voce la storia brassicola anglosassone.
Nel bicchiere il colore è ambrato tendente al ramato, la schiuma ocra, fine ed abbastanza persistente.
L’attacco al naso è caratterizzato dal biscottato cui segue il frutto di un’ abbondante luppolatura in stile inglese : troviamo  fiori bianchi, marmellata d’arancia, un tocco caratterizzante terroso e un accenno di frutta esotica, il tutto accompagnato da una sensazione leggermente polverosa molto accattivante.
In bocca il corpo è medio e la carbonazione medio bassa. Anchè qui l’attacco si presenta biscottato dopodichè si fa strada un’agrumato molto british, un accenno di ribes, vaniglia, mandorle e, verso fine bevuta, fa capolino un leggero warming dato dal tenore alcolico. Il finale è secco e caratterizzato da sensazioni erbacee abbastanza persistenti.
Una birra lontana dagli scintilii delle interpretazioni contemporanee dello stile, qui si gioca sul campo dell’eleganza austera espressa da una birra solida e davvero ben fatta. Consigliata in abbinamento a formaggi stagionati e a piatti speziati. [de:La]


mercoledì 25 settembre 2013

Pigato 2010, Riviera Ligure di Ponente DOC, Le Rocche del Gatto. Di Daniele


A volte mi chiedo perché ci sono vini eccellenti che non hanno ancora trovato la fama che meriterebbero.
Questo è uno di quelli.
E pensare che i vini di Fausto de Andreis hanno spesso dei problemi durante le assegnazioni delle DOC per caratteristiche non conformi al disciplinare.
Per me sono stronzate.
E’ la riprova che, spesso, ci sono interessi nascosti sotto alle commissioni di degustazione, altrimenti non si spiegherebbe.
Questo Pigato ha una stoffa e uno spessore tali da sbaragliare qualsiasi concorrente.
Ma va ascoltato.
Appena aperto è ritroso e si nasconde ad un orecchio (naso) non attento.
Come mi è già capitato di verificare, molti grandi vini hanno variazioni di colore dopo l’apertura.
Lui è inizialmente paglierino, bello luminoso, ma poi si fa più profondo, arrivando a sfiorare una tonalità oro-verde brillante.
Il naso, subito riottoso di balsamicità di erbe aromatiche e mineralità di roccia, si apre su pesca gialla, cedro e soffi floreali di ginestra, con salmastricità marine sullo sfondo.
In bocca è meno cangiante, mantenendo una bella stabilità, fatta di glicerina e sale.
Ingresso rotondo, morbido, ma riprende tensione e trova equilibrio sugli spigoli salati.
Una struttura tutta sostanza, dove l’alcool resta in secondo piano, rendendo la beva molto invitante.
Bello lungo, con ritorni di macchia mediterranea spruzzata dal mare.
Il giorno dopo, rieslingheggia, con gli idrocarburi appena accennati e il cedro.
Doveroso e spettacolare l’abbinamento con le trenette al pesto tradizionali, cioè con fagiolini e patate.
Ma vogliamo parlare del polpo al pesto con patate?

martedì 24 settembre 2013

Cuvée Mias di Le Mazel e la scoperta dei vini UFO. Di Niccolò


L’altra sera non senza una certa curiosità, quella di quando sai che stai per aprire qualcosa di fuori dai canoni, ho aperto il Mias 2007 di Le Mazel*. Viognier in purezza, 14 gradi, 3 grammi di residuo zuccherino, 4 anni di vecchia barrique. Dopo l’apertura aggiungerei alla sua carta d’identità, sub voce “Segni particolari”, una volatile piuttosto alta e una moderata, persistente, effervescenza.
Il primo giudizio della bevanda è inevitabilmente sconfortante.
Poi però si accende una lampadina.
Un occhio ai blog francesi mi obbliga a imbattermi nel termine OVNI; già incontrato altre volte, senza capirne il senso, se non che fosse una sorta di gioco di parole (in cui i francesi sono maestri). Orbene OVNI è traduzione francese di UFO, Unidentified Flying Object che diventa Objet Volant Non Identifié (esiste anche in italiano, ma non l’avevo mai sentito).
A partire da questo acronimo e vista la sagacia dell’enoblogger d’Oltralpe presto s’arriva all’OVNI, che oltre a essere quasi anagramma di VIN, diventa Objet Viticole Non Identifié, proprio a identificare i vini non identificabili come tali!
Messi gli occhiali dell’OVNI, tutto appare più ovnvio e il Mias di Mazel si riempie di senso.
La volatile getta acqua sul fuoco del dolce e la carbonica dà prospettiva.
E la bottiglia comunque finisce; nello stupore…
Voilà l’OVNI, c’est fini.


*Il “Domaine du Mazel” è fondato da Gérald Oustric in Ardèche nei primi anni 80, conferendo alla cooperativa locale l’uva prodotta su circa 20 ettari.  Negli anni 90 conosce Lapierre e Néauport e si mette a produrre per proprio conto vini naturali, da circa un terzo del terreno vitato. Dal 2003 vinifica interamente le proprie uve e con alcuni altri produttori, fra cui Gilles Azzoni, diventa uno dei protagonisti di una nouvelle vague di vini naturali da quella regione. Diventa semplicemente Le Mazel dopo che i vini escono da ogni appellation regionale.

lunedì 23 settembre 2013

La leggenda del "vino italiano" - di Riccardo Avenia




Tutto ebbe inizio a luglio, durante le vacanze in Sicilia (in realtà da molto prima). Ero con la mia compagna al ristorante, con l'intenzione di trascorrere una bella serata. Dopo aver ordinato le portate, il cameriere si avvicina per la scelta del vino. Sfogliando la carta, escludendo le storiche industrie siciliane ed i pochi vini "certezza", vedo un'etichetta a me sconosciuta, recante la scritta "Bio". "Massí proviamo", esclamo. Così, dopo aver chiesto qualche delucidazione - rivelatasi blanda a dir la verità - mi faccio portare la bottiglia: uno Zibibbo.

Il cameriere versa il calice. Nessun difetto, il vino è buono. Ricolmato, butto d'istinto il naso dentro e: boom! Senza volerlo, la mia mente parte dall'estremo sud Italia e compie un velocissimo viaggio, fino ad arrivare a Chiusa, in Alto Adige. A quel giorno in cui assaggiai quel buonissimo Kerner. Un vino ben fatto, niente da dire. Tuttavia, nella mia testa, qualcosa non tornava. Come poteva ricordarmi un Kerner? Ma certo: probabilmente il suolo sarà lo stesso, stessa altitudine. Magari i due vitigni in questione sono imparentati in qualche modo. Stessa forma di allevamento, stesso periodo di vendemmia, identico metodo di vinificazione ed affinamento. "Sarà per forza così", mi sono detto. Poco male, accantonata l'idea della nuova esperienza enoica - ripromettendomi di scriverne, rientrati a Bologna - mi sono dedicato anima e cuore alla bella serata che mi si prospettava.

A casa, passo dal blog dall'amico Daniele Tincati di Profumi di Vino e leggo un post - qui - che sembra la fotocopia di quello che avrei voluto scrivere io. Lui però si trovava all'isola d'Elba. Ora siamo già in due a cui non tornano le cose. Oppure anche qui il terreno, il vitigno, l'altitudine... Insomma come sopra: tutto identico. Sì sì, come no!

Successivamente, durante la settimana di ferragosto, mentre l'Italia intera si divideva tra spiaggia e montagna, vengo invitato - in modo forse non troppo felice - a dare la mia opinione sul termine -  nella sua accezione più negativa - di "vino tecnico". Cosa dice a rigurado Wikipedia? Interessante.

Dunque, anche se non sono mai stato ad un Master of Wine, a differenza di alcuni grandi guru del settore, provo a spiegare quello che si intende, o per lo meno, quello che io intendo con questo termine. Perché sentiamo tutti la necessità di chiarire definitivamente. Questo vocabolo ha il diritto di esserci e di essere usato.

Un vino ottenuto da pratiche di cantine eccessivamente invasive: filtrazioni (soprattutto sterili), refrigerazioni, uso di lieviti secchi (magari anche aromatici), solfitazioni elevate (per i più rigidi, basta poca so2 per alterare le caratteristiche del vino), interventi di acidificazioni, aggiunta di tannini, osmosi e, compagnia cantante, possono rendere il vino troppo "uniforme". Lavorazioni probabilmente indispensabili per correggere un'uva di dubbia qualità o provenienza. In altro caso, per unificare le diverse parcelle portate in cantina dai soci conferitori, da un'annata minore, oppure sfortunata. Se poi questi interventi vengono applicati da esperti usciti dalla medesima scuola enologica, con preparati ottenuti dalla stessa azienda produttrice, il vino potrebbe davvero risultare eccessivamente standard, omologato, appiattito o, appunto, tecnico.

Credit by sorgentedelvino.it - un post che consiglio di leggere.



Vini che organoletticamente, al novanta per cento, risulteranno impeccabili, ma che a livello emozionale non varrebbero nulla. Progettati a tavolino in cantina laboratorio, senza anima, senza origine - che in molti casi, in etichetta, riportano la scritta: Vino di qualità prodotto in regione determinata - in cui non ci si trova nessuna sbavatura, ma nemmeno nessun tipo di emozione. Proprio come quello Zibibbo bevuto in Sicilia. Del quale chiaramente, non ne è rimasto nemmeno un semplice ricordo.

Un argomento delicato, dalle molteplici ipotesi e sfumature, ma insomma il risultato spesso non cambia. In ogni caso, se non siete d'accordo, se avete qualche riflessione cui sottopormi, se volete aggiungere qualcosa o raccontare la vostra esperienza: questa è l'occasione giusta. Intervenite e portare il vostro contributo, per noi è importante.

domenica 22 settembre 2013

“16 anime”, Vigne dei Boschi Riesling di Romagna

Campiume, Vigne San Lorenzo, installazione
Brisighella esterno giorno e poi notte, se non ci fossi stato me ne sarei pentito.
Ospiti a Campiume da Filippo Manetti di Vigne san Lorenzo i bioviticultori di Brisighella presentavano i loro vini.
E c’era una verticale di “16 anime” il Riesling di Vigne dei Boschi.
Io amo il riesling al punto che non sto tanto a guardare da dove arrivi, non sospiro ah la Mosella! Ah l’Alsazia!
Io li provo tutti perché sono Riesling addicted.
Quello di Vigne dei Boschi, poi, lo avevo assaggiato, anche se in una serata densa di assaggi e faticosa e mi aveva incuriosito comunque.


La batteria era seria dal 2004 al 2011.
Lo stile di vinificazione è cambiato un po’ dalla prima all’ultima annata e dal 2005 si fermenta spontaneamente (dire che ci siano già dei lieviti di cantina indigeni è forse un po’ presto bisogna aspettare un po’ di anni prima che la deriva dei lieviti secchi usati sia terminata e si siano instaurate colonie specifiche).
Vigneti sui 400 metri slm in un posto dove permettono a Babini di avere temperature che non mortificano l’acidità e quindi di portare freschezza ai vini.

La 2004 è molto Alsaziana con nette sensazioni di muffa nobile e grassezze gliceriche, idrocarburi caramellati e marmellata di arance. Una vendemmia tardiva botritizzata, mi è piaciuta parecchio.
La 2005 è la bottiglia della svolta stilistica, i profumi si assottigliano e le zuccherosità spariscono per lasciare spazio ai minerali, alla sapidità acidulata e fondo leggermente amaricante.
La 2007 chiusa subito poi si apre con qualche sobbalzo fra note agrumate e minerali un po’ sottotraccia.
La 2008 il processo di rarefazione (complice anche una più fresca) continua smagrendo il vino che si fa esile, sapido e fresco. Idrocarburi in formazione in melange con pompelmo e citricità assortite.
La 2009 più ricca al naso, più pronta della precedente, gasolio e rocce e salinità, molto gastronomica.
La 2010  e
La 2011 sono veramente in fasce e si agitano sul frutto e sulla mineralità, delicatamente chiuse ma che fanno ben sperare.
La via dell’alleggerimento è interessante ne ha giovato la freschezza e la vivacità del sorso e un po’ alla lontana mi hanno ricordato i riesling di Sylvie Spielmann che però al naso sono dirompenti mentre il 16 anime mi è parso sempre mediamente chiuso come profumi.
La prossima volta bisogna fare un confronto Romagna versus Alsazia su queste interpretazioni del riesling, senza vincitori né vinti, solo così per giocare e imparare e chiacchierare di cose futili.
Kempè


Luigi

Poscritto
16 anime era il numero di persone registrate nei primi ottocento al registro della chiesetta del piccolo borgo vicino alle vigne.

venerdì 20 settembre 2013

Alla ricerca delle mele dimenticate. Di Rossana

http://pinterest.com/pin/410812797230170987/


Che sia verde come la Granny Smith, gialla come la Golden Delicious, Renetta, rossa come la Pink Lady, Red Delicious, Pinova, Annurca o Fuji, a rendere caratteristico il profumo ed il sapore delle mele sono le sostanze aromatiche presenti nella polpa e nella buccia (eteri, aldeidi, alcoli, terpeni e tannini).
Sono sempre alla ricerca di varietà selvatiche e rare, difficilissime da trovare in commercio, se ne contano a centinaia, apprezzate soprattutto nel Regno Unito.
Le varietà italiane più ricercate sono la Runsè o Ruggine o Grigia di Torriana piemontese, la Ciucalinna (campanella), Gambafina, la Magnana, Buras, Calvilla, Pum Carlo, in Umbria vengono coltivate la San Giovanni, Agostina, Toggia, Convertina e tante altre dalle caratteristiche uniche.
Succose, fragranti le piccole meline dell'Etna che di solito lascio sobbollire dolcemente in uno sciroppo aromatizzato con bacche di mirto e boccioli di rosa.

La pianta, Malus domestica, appartiene alla famiglia delle Rosaceae, cresce oltre i 200 m, fino a latitudini estreme come in Trentino, dato che resiste bene anche al freddo più intenso.
La mela contiene circa 50 kcal per 100 g, fornite dagli zuccheri presenti che oscillano tra i 7 e i 13%, in base alla varietà e al grado di maturazione.

Nutraceutica
Ricca di minerali ( potassio, fosforo, calcio, magnesio) e vitamine B, PP, E e carotenoidi
Buona percentuale di fibre. Contengono polifenoli anche nella buccia, acquistate solo quelle biologiche e mangiatele senza sbucciarle.
La buccia e la polpa contengono pectine dal potere gelificante, possono essere aggiunte alle altre conserve di frutta per velocizzare i tempi di cottura.
L'ossidazione della polpa, in seguito al taglio, può essere limitata dall'aggiunta di succo di limone, oppure le fette o i pezzi già tagliati possono essere conservati in acqua frizzante in frigorifero per alcune ore.
Protagonista di numerose torte, soffici come quella che segue, caramellate Tarte Tatin, in crosta Apple Pie e Crumble.
Le fette in pastella diventano golose frittelle, la mela si usa anche per conserve e mostarde, che accompagnano formaggi, cacciagione e carni lesse e tortelli di zucca.
Il succo può essere consumato fresco o fermentato Sidro, in questo caso acquisisce un leggero grado alcolico.

Torta soffice di mele al cardamomo


2 mele Pink Lady
170g zucchero semolato
4 uova
Un pizzico di soffi di sale di Trapani
250 g farina Cuordolce Petra (00)
50 g amido di mais
8 g lievito chimico per dolci
100 ml di panna fresca
90 g di burro fuso a temp. amb.
Semi di vaniglia Tahiti
Semi di cardamomo verde (2 capsule di cardamomo)

20 g zucchero Demerara
Succo di mezzo limone

Procedimento
Portare gli ingredienti freddi a temperatura ambiente.
Preriscaldare il forno a 180°C in modalità statica.
Rivestire uno stampo a cerniera di 24 cm con carta forno o imburrare e infarinare.
Tagliare le mele a fette sottili, ho utilizzato la mandolina, irrorarle col succo di mezzo limone.
Montare le uova con lo zucchero semolato, il sale e gli aromi.
La massa deve triplicare di volume e cadere a nastro dalla spatola.
Aggiungere in tre riprese la farina setacciata con l’amido e il lievito, alternandola alla panna.
Amalgamare il burro a filo, conservandone circa due cucchiai.
Versare nello stampo e infilzare le fettine di mela.

Non occorre precisione millimetrica, con la lievitazione, durante la cottura verranno ricoperte.
Spennellare il burro rimasto sulle fette di mela, spolverare con lo zucchero Demerara e infornare.
Abbassare la temperatura a 160º dopo 10 min e proseguire la cottura per circa 40 min. Controllare la cottura con uno stecchino di legno nella parte centrale.
Da gustare tiepida, con gelato alla vaniglia o salsa inglese profumata al Brandy o Calvados.
Per iniziare bene la giornata o a merenda con una tazza di tè Earl Grey.


Rossana

giovedì 19 settembre 2013

Dettori Bianco 2009, Romangia, Tenute Dettori. Di Niccolò


L’annata 2009 del Dettori Bianco è segnata dalla guarigione dalla peronospora.
Le piante non ancora in regime di produzione normale hanno dato il meglio che potevano.
Una ricchezza estrattiva forse senza precedenti in un vino già tradizionalmente ricchissimo.
Un vino che si è portato in bottiglia una straripante vitalità che nel trasporto ha preso spuma, quando l’anidride carbonica disciolta al momento dell’imbottigliamento si è liberata prepotentemente.

Ingredienti:
Badde Nigolosu
Alessandro Dettori
Vermentino
Zolfo

Il naso è ricco, compatto, appena iodato e con un abbozzo di ossidazione.
In bocca, in primo piano, quasi a strutturare la scena: dolce residuo e amarezza. In equilibrio.
Dinamizza un’elegante carbonica, sottile, fine e persistente. L'acidità non si nota, ma c'è.
Poi una serie di suggerimenti che vanno dall’uovo allo zucchero di canna, dal candito alla freschezza balsamica di eucalipto.

La consistenza e alcune impressioni sia al naso che in bocca, suggeriscono un’idea di passito; refoli quasi da Moscadeddu. Invece il vino tiene il quasi secco ed esprime elevata bevibilità, proprio grazie a un insieme di elementi che si giustappongono armonicamente.

mercoledì 18 settembre 2013

Ventisei, Pinot Nero IGT Toscana 2010, Il Rio di Paolo Cerrini


Attenzione post con conflitto di interessi

La nouvelle vague dei Pinot Noir di Toscana.
Il Mugello evidentemente è freddo e alto per cui il Pinot Noir ci fruttifica bene e gli ricorda il suo paese natale.
Poi il signor Cerrini lo vinifica con cura e delicatezza e ne estrae solo le parti “eteree”, lo distilla liberandolo dalla materia.
Parziale macerazione carbonica.
Un vino diafano.
Il colore è rubino cangiante, i profumi sono di frutto dolce e succoso.
Il sapore e fruttoso e pinoteggiante con qualche anticipo di agrume, melograno, poi l’acidità non così potente come quella borgognona ma aiutata da un raschio tannico a ripulire le fauci assetate.
Elegante e misurato.
Con pollo al curry e zucchine è stato un vero godimento.
Kempè

Luigi


martedì 17 settembre 2013

Fabbrica di San Martino di Mauro Cecchi

Prefazione
Oggi al bar c’è Mauro che racconta la sua storia, un pezzo, non tutta subito, come si fa al bar per tenersi sempre un argomento per il giorno dopo, per la settimana dopo o per quei momenti in cui gli avventori, magari i più caciaroni, un po’ afflitti lasciano stagnare le conversazioni.
Oggi, appunto, Mauro Cecchi avventore affezionato, amico, anche lui sufficientemente indisciplinato per poter accedere alla truppa dei riottosi avventori con licenza di scrivere, ci racconta una sua avventura, spero la prima di una lunga serie, in Lucchesia da Giuseppe Ferrua a bere vini con i “tannini ignoranti”.
Mi riempie di piacere che abbia deciso di scrivere della Fabbrica di San Martino e il motivo è uno e mi lacera il cuore con forza e mi lascia quel fondo di tristezza e gioia, lacrime e risate.
Ho conosciuto Giuseppe Ferrua circa un anno fa, me lo presentò Simone Morosi, li fotografai insieme.
Simone si propose di organizzare un viaggio in lucchesia per provare l’asciugante potenza del tannino del sangiovese di quelle terre, ne parlammo sino pochi giorni prima che Simone morisse.
Io ancora oggi non posso credere che ci abbia lasciati qui da soli senza la forza trascinante del suo umorismo e della sua allegria, penso spesso a Simone, penso spesso ai suoi “tannini ignoranti”.
E sento un raschio di unghie affilate sul cuore.
Kempè Simone
Che tu sia in luogo dove il vino bono scorre a fiumi.
Luigi


Giuseppe Ferrua e Simone Morosi





Autunno 2006 seduto ad un tavolo di Cortemanlio  l’amico e oste Bob mi propone un vino della zona di Lucca. 

 L’etichetta recita Bianco Doc Colline Lucchesi . Non ne avevo mai sentito parlare mea culpa sicuramente ma anche la certezza  che alcune realtà interessanti della Toscana vinicola siano spesso  oscurate da Montalcino, Chianti e Bolgheri.
E’ un uvaggio di trebbiano, malvasia e vermentino in parti uguali  che dopo breve macerazione fermenta in tonneaux.
 Ampio spettro olfattivo, buon corpo e un allungo finale stile Saronni mondiale a Goodwood, Bang !

Quindi decisi di provare il Fabbrica Rosso da uve Sangiovese, Canaiolo ,Colorino e Ciliegiolo.
Vinificazione  in acciaio e affinamento di  12 mesi  in botte grande da 1000 Litri e ulteriori  18/20 mesi  in bottiglia.
Si presenta con un bel  frutto e sentori di sottobosco in evidenza, grande ampiezza e tannini importanti che disegnano un lungo finale. La sorpresa però è la notevole evoluzione soprattutto se aperto con largo anticipo o bevuto nei giorni seguenti  (nella prima spedizione uno scritto di Giuseppe mi  invitava a sperimentare un assaggio a 2/3 giorni dall’apertura).
Prima o poi lo propongo in degustazione alla cieca al fianco di qualche blasonato Supertuscan,  così.. per vedere l’effetto che fa.

Insomma tutto molto interessante, ma quel nome… Fabbrica di San Martino mi lascia perplesso, perché Fabbrica ?  Immagino metallo, cinghie, nastri trasportatori, non vigne, non vino.


Tempo dopo, conosco Giuseppe Ferrua che insieme a Giovanna Tronci conduce con grande passione l’azienda e mi spiega che nata nel 1735, sulla base di una villa quattrocentesca,  già a quel tempo produceva olio e vino dando lavoro a decine di persone, di conseguenza veniva chiamata La Fabbrica.



Oggi è un azienda agricola biodinamica di 20 ettari complessivi, tra boschi e ulivi e poco più di due ettari di vigna. Giuseppe ha voluto anche asini e qualche bovino convinto giustamente che la loro presenza arricchisca la biodiversità della zona con ricaduta benefica sulla salute delle proprie vigne che di conseguenza necessitano di pochissimi trattamenti.
Naturalmente  in cantina interviene il meno possibile quindi lieviti indigeni,  solforosa ai minimi e un uso  del  legno che negli anni si è fatto più accorto anche grazie a botti, che non più nuove, rilasciano meno i tipici sentori  permettendo alle uve di esprimersi al meglio.
Risultato, nel  bicchiere troviamo vini di territorio che di più non si può  anche grazie a uve tipiche locali da vigne cinquantenarie.

Questo approccio molto lieve in vigna e in cantina lo si ritrova nei  modi  pacati di Giuseppe Ferrua uomo di rara gentilezza  che negli anni è diventato un punto di riferimento per diverse  realtà locali e non solo. Già vice-presidente di Renaissance des Appellations Italia, dal 2012 è presidente di ViTe l’associazione che promuove Vivit  portando quindi per la prima volta i vini bio, naturali ma soprattutto artigianali all’attenzione del  grande pubblico sul palcoscenico di Vinitaly.

La Fabbrica di San Martino è anche un bed & breakfast e agriturismo autentico nello stile delle case d’epoca e gode di uno sguardo che si allunga sulla piana di Lucca e oltre per diversi chilometri.
Se fosse una canzone ? Just like heaven.

Le altre etichette:
Arcipressi Bianco:  Vermentino  Malvasia e Trebbiano vinificato in  acciaio  
Arcipressi Rosso: Uve da una vigna cinquantenaria di uve tipicamente locali, vinificato  acciaio
Rosaspina:  Rosato da uve di sangiovese
Sangiovese: (formato Magnum)



lunedì 16 settembre 2013

Lolik 2007 - Guccione di Andrea Della Casa


In primis un grazie sentito a Mauro che mi ha omaggiato di questa bottiglia.
Questo vino fa parte del "primo tempo" di Francesco Guccione.
Già perché suo malgrado poco più di un anno fa ha dovuto ricominciare da zero, respinto ed esautorato dalla sua stessa azienda.
Miele, sale, mandorle e flebili guizzi di agrumi.
E poi pesca bianca e succo di albicocca.
Caldo e avvolgente, per una bocca rotonda e levigata interrotta solo da sporadici puntelli di sapidità. Alcolicità evidente ma ottimamente amalgamata nel tutto. Sorso profondo.
Questo trebbiano mette la Sicilia nel bicchiere.
Dopo questo assaggio sono molto curioso di provare i nuovi vini di Francesco, che se non erro proprio quest'anno comincia il suo "secondo tempo".

domenica 15 settembre 2013

Di spine, colori psichedelici e potentissimi antiossidanti. Di Rossana



L'Opuntia ficus indica appartiene alla famiglia delle Cactaceae, originaria del Messico, è una pianta estremamente adattabile, cresce in terreni aridi e non necessita di alcun trattamento con fitofarmaci.
Il fusto della pianta è costituito da cladodi succulenti (pale), capaci di compiere la fotosintesi clorofilliana, ricoperti da numerosissime spine.
In primavera sbocciano i fiori gialli da cui si svilupperanno la bacche carnose e polispermiche, i semi possono essere anche più di 400 per frutto. Un consumo eccessivo dei frutti, proprio per l'abbondanza dei semi, può causare occlusione intestinale.

La tecnica di coltivazione più diffusa prevede il taglio di questi primi frutti, ciò comporta una seconda fioritura della pianta che darà origine ai fioroni, frutti dalle caratteristiche qualitative superiori, che si raccolgono tra ottobre e novembre.

Le principali varietà coltivate si distinguono in base al colore del frutto:

  • Gialla o sulfarina,
  • Bianca o muscaredda, e
  • Rossa o sanguigna.




Oltre all'America centrale e meridionale, il ficodindia è diffuso anche in Sud Africa e nel bacino del Mediterraneo.
In Sicilia la pianta cresce spontanea, la si trova anche nei terreni più impervi, in riva al mare o suo tetti delle vecchie case, viene anche coltivata nella zona di Roccapalumba nel palermitano e Santa Margherita Belice nell'agrigentino.


 

Nel catanese le aree di San Cono e dei paesi alle pendici dell'Etna hanno ottenuto la certificazione D.O.P.
Ad ottobre proprio a San Cono si svolge la tradizionale Sagra del Ficodindia.

Anche la buccia dei frutti ha numerose spine, per il consumo è preferibile infilzare il frutto con una forchetta, lavarlo sotto un getto d'acqua corrente, eventualmente spazzolandolo con una spazzola a setole dure.
Praticare due tagli orizzontali per eliminare le estremità,  successivamente un taglio verticale permetterà di separare il frutto dalla buccia.

Il ficodindia, molto apprezzato per il consumo fresco, viene anche utilizzato nella pasticceria siciliana nei mustazzoli, gelatine, sorbetti, budini e liquori.


Deliziosa, aromatica, finissima e sorprendente la granita di fichidindia rossi di Pino Cuttaia.


Granita di fichidindia rossi, ristorante La Madia, Licata (AG)

Per trasformare il frutto in un dessert light, basta tagliarlo a fette e cospargerlo di miele di zagara, cannella e granella di pistacchi.

Nutraceutica
I frutti sono ricchi di minerali tra cui calcio, fosforo, potassio, magnesio, ferro, contengono vitamina C, betacarotene, amminoacidi, glucidi e  un alto contenuto di fibre solubili e insolubili.
Possiedono importantissime capacità antiossidanti, dovute principalmente all'indicaxantina e alla betanina, che proteggono dalla lipoperossidazione e dai danni radicalici endoteliali.


Dai fiori essiccati si prepara un infuso diuretico, depurativo e antiossidante.

Anche i cladodi sono commestibili, anticamente venivano cotti in salamoia, oggi il loro impiego è limitato alle proprietà emollienti e cicatrizzanti della polpa mucillaginosa.
Contengono un polisaccaride, l'Opuntiamannano che lega i grassi e i glucidi ingeriti con la dieta, rendendoli meno assimilabili.

Quella per il finger food, stuzzichini, teaser è per me una vera passione ossessione, mi ciberei solo di micro creazioni, può sembrare un'operazione laboriosa e di precisione, in realtà bastano 5 minuti!
La dolcezza iodica delle uova di salmone incontra il fruttato sapido dei fichidindia, il tutto bilanciato dalle note balsamiche di anice del finocchietto selvatico.

Sogno di una notte di fine estate


per 12 mini porzioni

250 g di yogurt greco 
fiori di finocchietto selvatico o aneto

5 fichidindia
Tabasco Jalapeno
fleur de sel
20 ml di olio evo Biancolilla o altra cultivar delicata

uova di salmone 

fiori di finocchietto selvatico e fiordaliso per decorare


Passare la polpa dei fichidindia al passaverdure, emulsionare con olio, sale e tabasco.
Amalgamare lo yogurt greco con i fiori di finocchietto polverizzati, inserire la crema in una sac à poche.
Disporre un ciuffo di yogurt su un lato del contenitore di servizio, coprire con le uova di salmone, completare con la salsa di fichidindia e decorare con i fiori eduli.

Rossana