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martedì 30 aprile 2013

Neuroni sparsi (IV) di Niccolò Desenzani



Barbera da Sul 2011, Laiolo Reginin
Nel cammino verso #barbera3 e #ddb non potevo non andare a cercare i vini di Laiolo. In realtà ho scoperto che li avevo quasi sotto casa, grazie a Fabio Scarpitti che distribuisce gran parte dei vini premiati da Massobrio, Gatti e lui medesimo. Questa Barbera proviene da viti vecchissime, ma è vinificata in grande understatement, pulizia e integralità. Il risultato nel bicchiere si svela poco a poco, ma dal secondo giorno il velo è sempre più sottile e arriva una profondità davvero bella. Alètheia in greco antico, la verità, vuol dire etimologicamente “senza veli”. Ho detto tutto.

Trebbiano d’Abruzzo Vigna di Capestrano 2010, Valle Reale
Scoperto due anni orsono, questa piccola produzione di Valle Reale fermo sur lie è una vera chicca. Delicato e fresco, ma con un bel contrappunto sostanzioso dato dai lieviti in bottiglia si colloca fra i Trebbiano che si vorrebbe aver sempre a portata di mano.

Trebbiano d’Abruzzo 2010, Emidio Pepe
Un'altra tessera che va a comporre il puzzle di Trebbiano per il quale sono davvero strippato. Vino golosissimo, che ricorda un po’ il Valentini, ma con lo stile un po’ più approssimativo dei Pepe. Però per me è sempre vino da beva compulsiva. Complice l’annata 2010, ho ritrovato la goduria del 2007.

Cerasuolo Montepulciano d’Abruzzo 2010, Emidio Pepe
Amo sempre più i rosati, perché spesso riescono a essere di beva universale. Leggeri, ma capaci di esprimere un ampio spettro aromatico e come in questo caso dotati di grande mordente. Per certi versi ho trovato in questo Cerasuolo una beva quasi perfetta. Disimpegnata e dissetante, ma anche più complessa e da meditare. Davvero un bel vino, punto.

Rosso 2011, La Maliosa  
Vino ricevuto in regalo in occasione di una cena con la produttrice, è un rosso mediterraneo di grande impatto (siamo in Maremma grossetana, per intenderci). Ma anche grande beva nonostante una gradazione alcolica importante. Da viti vetuste di ciliegiolo , aleatico e vitigni autoctoni è un vino che mi ha colpito moltissimo. Nonostante sia una delle prime annate di produzione è già buonissimo e direi che come ingredienti il suo potenziale è pressoché illimitato. La produttrice sta battendo la zona per recuperare vecchie vigne e secondo me non sbaglia. Dal sorso si desume vocazione.

Gavi Pisé 2010 e Gavi Riserva 2010, La Raia
Anche in questo caso ho ricevuto i vini in dono dal produttore. L'azienda è certificata biodinamica. Nonostante la scelta stilistica sia verso vini bianchi “convenzionali”, cristallini, limpidi e rigorosamente fermi, con vinificazione molto controllata, qui gioca bene la materia, che stenta a stare fra le "righe" della vinificazione e dota il sorso di grande freschezza e profondità. Piuttosto simili i due vini, il Pisé forse ancor più incontenibile regala una carbonica finissima e piacevolissima. Quindi il suggerimento è: rompete le righe!

Ortrugo 2009, Croci
Ho già parlato e scritto di questo splendido vino in più luoghi. Eppur ogni volta che lo ribevo riesce sempre a stupirmi. Ho l'impressione che la materia contenuta in queste bottiglie senta le stagioni. Da quando lo bevvi due anni or sono per la prima volta, ho avuto l'impressione che d'estate si asciugasse d'inverno forse ancor più, e che invece in primavera tornasse a rimpolparsi. Equilibrato fra macerazione, ossidazioni birrose, carbonica dosata perfettamente, dissetanza e sostanziosità, è vino che si pone come riferimento per tanti dei miei pensieri sulla beva. Mi è rimasta una sola bottiglia, che presto sparirà dal mondo fisico. Ma solo da quello.

Play me

domenica 28 aprile 2013

Alessandro Mecca, il maestro del brodo a L'Estate di San Martino




Alessandro Mecca è lo chef più "tenebroso" della provincia di Torino, sguardo impostato dai suoi trascorsi formativi in Brasile e mestolo stile Crocetta il ristorante di famiglia dove è cresciuto.
Alessandro non ancora trentenne, è di una simpatia unica, una forza della natura, sa comunicare tutto il suo amore per la cucina con grande e vera passione.
La prima cosa che mi ha colpito di Alessandro è il suo relazionarsi con il giovane e valente team di lavoro del suo ristorante: molta attenzione, giusta gentilezza e visione di quello che deve essere fatto.
Alessandro è un cuoco di percezione, quella percezione che lo ha avvicinato ultimamente ai vini naturali, quella percezione che lo rende abilissimo con le carni e con il brodo...il brodo? direte voi...oh sì, Alessandro è fra i pochissimi in grado di servire a tavola un brodo che mia bisnonna avrebbe definito "in grado di risuscitare i morti".
Se andate a Villanova d'Asti, a L'Estate di San Martino, il ristorante di Alessandro, scegliete di desinare all'esterno nei due tavoli che si affacciano alla cucina totalmente a vista., e fatevi preparare i gnocchi conditi solo con olio evo e parmigiano, lui capirà.

L'Estate di San Martino, Via Vittorio Veneto 33, Villanova d'Asti (AT)



venerdì 26 aprile 2013

Macerazioni e tipicità: riflessioni pseudofilosofiche di Andrea Della Casa


La vinificazione con macerazione è pratica molto comune per i vini rossi. Un pò meno per quelli bianchi anche se ultimamente sono molti i produttori che mantengono per un certo periodo di tempo questi ultimi a contatto con le loro parti solide. In questi casi il vino si presenta organoletticamente molto diverso dai bianchi classici che siamo abituati a bere, tanto da far sostenere a molti che le macerazioni compromettono la tipicità del vitigno.
Affermazione che mi fa riflettere.
Tipico è un qualcosa di caratteristico, proprio di un luogo o di una cosa, quindi per tipicità di un vitigno si intendono i suoi caratteri organolettici espressivi, le sue peculiarità che lo distinguono nettamente dagli altri.
Le macerazioni influiscono sulle caratteristiche del vino (in modo più o meno incisivo anche in base alla durata dei tempi di permanenza sulle bucce) perciò se assaggiamo per esempio un Sauvignon macerato ed uno vinificato in bianco ci sembreranno due vini diversi.
Ma chi ha deciso che le caratteristiche peculiari di questo Sauvignon siano le une o le altre?
Penso sia solo una questione di paradigma. Abbiamo assunto come punto di riferimento le caratteristiche ottenute da mosti subito svinati perchè siamo sempre stati abituati a bere vini prodotti in questo modo, e per lo stesso motivo individuiamo caratteri ben riconoscibili nei vini rossi ottenuti con macerazione.
La buccia e altre parti solide, diverse per caratteristiche biologiche da varietà a varietà, sono componenti integranti della bacca e come tali capaci di donare elementi distintivi al vino, per questo credo che la peculiarità del liquido odoroso (cit.) sia data dall'acino in tutte le sue parti, che interagiscono tra loro e con l'ambiente esterno.
Poi preferire l'una o l'altra tipologia di vino è voce del gusto soggettivo.

mercoledì 24 aprile 2013

Merlot Radikon: 1999 vs 2002 - di Riccardo Avenia



Era da tempo che desideravo degustare il leggendario Merlot di Radikon con profondità. Prima d'ora solo qualche assaggio qui e là, niente più. Mi sono sempre tenuto alla larga per via dell'elevato prezzo e per i ricarichi a volte troppo esagerati di alcune enoteche o ristoranti. La 2002 - annata minore - idealmente l'ho sempre evitata perché il prezzo era notevolmente inferiore alle altre. Ci sarà un motivo: pensavo!

Poi, grazie al contributo dei quattro amici di sempre, una calda taverna ed un tavolo apparecchiato di ogni ben di Dio, eccoci a degustare ben due annate contemporaneamente, addirittura, entrambe in formato da un litro:


Radikon Merlot 1999

Impenetrabile, compatto, dall'unghia granata. Al naso è subito riconoscibile il varietale, ha note decise, fresche di frutta rossa e nera, di agrumi. Poi cioccolato, menta ed un perenne sottofondo di caffè. Pieno come appunto un Merlot. Il sorso è avvolgente, rotondo, con frutto carnoso, saporito e lezioso. Dall'altra parte c'è la sapidità che sostiene e dinamizza la bevuta, che conclude davvero piacevole e lunga. Niente da dire, un bicchiere che va notevolmente oltre, una grande espressione del vitigno, ora, ma anche tra dieci anni. Un 1999 che sembra non voler invecchiare.


Radikon Merlot 2002

Rosso granato, meno compatto e di maggior trasparenza. Naso cangiante, inizialmente su sentori officinali ed infusivi. In seguito - grazie ad una fresca acidità - si avvertono frutti pungenti quali mirtillo e ribes, seguiti da erbe aromatiche, una lieve nota vegetale e un ricordo di salamoia. China, caffè appena tostato, ed un finale terziario. Più dinamico e reattivo del precedente. Il sorso evince acidità: quindi freschezza. Sapidità, tannino fitto ed inserito e meno concentrazione a gratificare la beva. Mantiene comunque profondità, gusto, equilibrio ed una bellissima bocca verticale. Un vino, un millesimo, che in questo caso stupisce davvero. Chi l'avrebbe detto!


Sembrerà banale - per me non lo è affatto - ma il primo vino costa il triplo dell'altro. Se il Merlot del 1999 lo si trova a 150/180 euro (per la bottiglia da un litro), quello del 2002 ne costa 50/80. Io non ho dubbi: ora e forse per altri tre, quattro anni il secondo campione degustato vince per dinamismo, beva, slancio e non conformità. Senza contare poi il pezzo.

Probabilmente il Merlot del 99 lasciandolo nel calice - ma anche in cantina per lunghi anni - avrebbe dimostrato sempre nuova energia ed una continua evoluzione: quella che merita del resto. Mentre il secondo probabilmente si sarebbe definitivamente seduto nel lungo termine, anche se più giovane, risulta meno longevo. Mah, cosa volete, noi abbiamo terminato entrambe le bottiglie in meno di tre ore e, quella che ci siamo maggiormente "litigata" è stata proprio quella del millesimo minore, il Merlot del 2002.

Ad ogni modo, grazie Stanko Radikon, la serata è stata un trionfo.

lunedì 22 aprile 2013

Bordighera, Pesci e Vini al Magiargè di Vittorio Rusinà



Che si chiamasse Magiargè e non Mangiargè l'ho scoperto solo sabato sera, che fosse uno delle migliori osterie di pesce in terra ligure lo sapevo da tempo, che fra i vini presenti in carta ci fosse una bella scelta di naturali è solo da un anno che ne ho coscienza.
Entro e creo subito scompiglio in sala: avevo visto che in carta c'era una bottiglia di vino di cui avevo letto gran lodi da parte dell'amico Jacopo Cossater, la Vitvoska 2009 di Zidarich, e allora vai, ordino la Vitovska e subito accorre il patron a chiedere rassicurazione "Conosce la tipologia di questo vino e come vinifica il produttore?", "Sì sì..." dico io, "Magari glielo scaraffo...o... ecco le cambio il bicchiere, più ampio così ossigena", incomincio a preoccuparmi anch'io e intanto tocco gli euro messi in tasca da parte per l'acquisto della buta, 35 per l'esattezza, "ok ci sono, si può iniziare a danzare!"
Naso nel calice e boom ci sono tutti i profumi del mondo, piano piano cangiano, si trasmutano, mi inebriano, mi stordiscono e mi esaltano...c'è la pietra, c'è l'acidità, la dolcezza, i fiori, il tabacco, le erbe, l'incenso, i frutti, i sali...ci sono tutti i baci del mondo.
Vitovska piccolo grande vitigno di terre di confine orientale, ai più, compreso me, quasi sconosciuto eppure in modo grandioso l'alchimista Zidarich ne trae uno dei migliori vini assaggiati nella mia ormai lunga vita.
La Vitovska è perfetta con i piatti di pesce della cucina di Magiargè, qui usano solo pesci di mare senza cedimenti ai pesci di allevamento e nel piatto si sente, eccome se si sente: perfette le sarde ripiene alla nizzarda in una tempura da lode, da lacrime i due gamberetti e le cozze del cappon magro alla genovese, da inchini profondi la mormora  "selvaggia" passata prima sulla piastra con la pelle e poi cotta al forno con rametti di mirto.
Il Magiargè è sicuramente uno dei posti in Italia dove ho mangiato il pesce migliore, cucinato a regola d'arte.
Lode per la presenza in carta di una Oude Gueuze e di una nutrita serie di champagne e di vini naturali, assai intrigante.
D'estate mettono qualche tavolo nella piazzetta antistante e a volte, dopo aver cenato, mentre si scendono le scale che dal centro storico portano al lungomare, circondati da piante grasse e fiori, sotto le stelle si ferma il tempo.




Osteria Magiargè
Piazza Giacomo Viale 1, Bordighera (IM)

domenica 21 aprile 2013

vini integrali a Villa Favorita



Ho vagato solo e in compagnia a Villa Favorita (con Riccardo e Sara e Andrea e il Caf), splendido luogo, molto rilassante, anche se alcuni produttori naturali lamentano la frammentazione e auspicano una riunione della “categoria” sotto lo stesso tetto.
Io me la sono scialata da turista, ho assaggiato, ho parlato, ho incontrato gente, ho ascoltato musica.
Oggi a giorni dall’evento mi tornano in mente con insistenza due vini e un modo di interpretarli che mi piace, mi intriga.
Due vini “integrali” non purificati.
Grillo e Zibibbo Integer di Marco De Bartoli (i millesimi non li ricordo).
Mi sono piaciuti molto nella loro sincerità e ricchezza.
Li conoscevo già ma mi avevano detto che la famiglia De Bartoli aveva smesso di produrli.
Invece sono ancora in produzione, principalmente per il mercato estero perché in Italia il “genere” non alletta palato dei miei conterranei.
Peccato e peccato non averne acquistato qualche bottiglia.
Kampai

Luigi

Poscritto
Sono vini che hanno raggiunto la stabilità in maniera naturale senza forzatura: fermentazione in barrique usate con lieviti indigeni, no filtrazioni, refrigerazione indiretta, affinamento sulle fecce fini di 12 mesi, so2 sotto 50mg/l e solo all’imbottigliamento.

mercoledì 17 aprile 2013

un non post sul Lambrusco di Vittorio Graziano



Aver aperto il bar a due Emiliani come Andrea e Riccardo mi ha portato, inevitabilmente a bere Lambru e altre amenità frizzanti per lo più sconosciute in terra sabauda.
Non me ne pento affatto perché i nuovi avventori sono molto simpatici e i vini che hanno portato sono “vini amorosi”.
Sono un inno alla profondità delle superfici, alla complessità del semplice, organoletticamente viaggiano nella terra di nessuno, spesso demonizzata, della piacevolezza, della sete.
Dissetano e soddisfano, poi dopo se rimane il tempo, dopo le risate e i festeggiamenti, magari, fanno pure pensare.
Sono ancestrali? Colpiscono il corpo calloso e stimolano il lato più antico del nostro cervello?
Io direi di sì e ignorano il lobo frontale e le aree della parola, meglio, tanto di parole c’è ne sono già tante e molte dette a sproposito (questo blog è campione del mondo di parole inutili).
Questi vini, ad esempio io adoro le malvasie frizzanti, danno dipendenza e obbligano ad un consumo compulsivo e finiscono sempre molto prima degli altri.
Perché me li avete fatti scoprire, amare, cosa mi attira nelle bolle, nelle spume rossastre, nei tannini urticanti, nelle amaritudini aromatiche?
Credo siano i vini più territoriali che ci sono perché contengono l’uva, i luoghi da cui provengono, la mano del vigneron e anche la gioia del futuro bevitore, forse per questo sono amorosi.
Kampai

Luigi

Poscritto
Sono mesi che una bottiglia vuota di Lambrusco di Vittorio Graziano occhieggia da uno scaffale dell’ufficio e chiede di essere raccontata ma non ero mai pronto, mi sembravano sempre vuote le parole con cui avrei potuto descriverne i profumi e i sapori.
Da questa incapacità è nato il post.

lunedì 15 aprile 2013

Cantine Barbera a Menfi, ahi cuanta pasion!


Le parole, la gestualità di Marilena Barbera mi fanno tornare in mente la canzone di Paolo Conte “Cuanta Pasion” e “per noi che viviamo in fondo alla campagna e abbiamo il sole rare volte e il resto è pioggia che ci bagna” è una iniezione di solarità mediterranea, non completamente spensierata perché i Siciliani hanno sempre un po’ di testa al nord e una inclinazione alla malinconia.
La passione, appunto, è il primo motore che spinge Marilena a fare il vino e imbottigliarlo e promuoverlo.
Cuanta pasion per superare i problemi che come chicchi di grandine picchiettano dolorosi sulle spalle e sulla testa.
Passione visionaria che le ha permesso di superare gli stereotipi della sicilianità e del conformismo enologico per intraprendere una strada più incerta, lastricata di dubbi.
E i vini, che sono specchio della terra e del vigneron, fanno trasparire come schermi diafani il concetto produttivo di Marilena.
Freschezza, pulizia, eleganza, vini in levare, forse persino timidi.

Vorrei dire che ha decisamente imboccato il bio nella condotta agronomica; che fermenta con lieviti di cantina; che sperimenta la macerazione fermentativa sulle bucce del Grillo; che ha un po’ abbandonato il Nero d’Avola ormai mediaticamente e economicamente “bruciato”; che ha creduto nel Perricone cultivar ormai marginale; che accudisce un vecchio vigneto di Catarratto dal quale ottiene un passito che non “esiste” (il disciplinare produttivo non contempla l’appassimento per questa varietà).
Ma non è la mera somma di queste pratiche a rendere interessanti i suoi vini, la sua intuizione è che ha capito di avere in mano cultivar di grande personalità e un territorio nel quale convivono con grande naturalezza.
Ogni vino è di un vigneto, alla francese e altrettanto francese è l’ossessione all’eleganza, alla purezza, alla verticalità.
Infatti appaiono un po’ anomali all’assaggio distratto, così magri, così poco alcolici, così poco siciliani.


Il Grillo ”Coste al Vento 2010” proveniente da un vigneto posto a 400 m slm a Santa Margherita di Belìce (vi scongiuro non dite Bèlice) ha trama delicata su corpo sferzato da mineralità e freschezza in soli 12,5 % vol di alcol!
Profumato e nordicamente agrumato e minerale, il campione assaggiato aveva subito per il venti percento una macerazione fermentativa sulle bucce di alcuni giorni (non esagererei con le macerazioni, se posso dare un consiglio non richiesto, perché di vini eleganti se ne sente il bisogno e si torna sempre a loro dopo gli eccessi carnascialeschi).


Che dire del Perricone “Microcosmo” 2010 vino ottenuto da un vitigno storico molto diffuso un tempo e ormai retrocesso a comparsa nel vigneto siciliano.
Storicamente allevato con il Greco e vinificato con l’aggiunta delle sue uve ha trovato un posto al “sole” da Marilena in abbinamento con il Nerello Mascalese coimpiantato per circa il 30% nello stesso vigneto.
Il vino ottenuto da quel microsmo (è molto interessante sentire Marilena raccontare che le due cultivar molto diverse fra loro si accordano e vanno in produzione quasi all’unisono) è molto goloso di frutti e speziature e freschezze, tannini lievemente urticanti (così per dire potrebbe ricordare un Pineau d’Aunis, un Grignolino…).


Molto buono il Catarratto passito “Albamarina” 2011 ottenuto da un vecchio vigneto di famiglia senza irrigazione in cui si produce uva “bona ma picca” (buona ma poca) con acidità siderali mantenute vive dalla tecnica di appassitura (torsione del peduncolo) e dalla vecchiezza dei ceppi.
Le albicocche in composta aggrediscono golose il naso con anticipazioni di acidulazioni fresche e sgrassanti.

Mi è piaciuta parecchio anche l’Insolia “Dietro le case” una selezione proveniente da un vecchio vigneto vicino alla cantina, molto “insolia”, onesta, buona anche complessa ma senza le aspettative da “vinone” che le avevano appioppato negli anni novanta, un bianco più grasso, che sostituisce alla freschezza la salinità e lievissimi accenni di ossidazioni benevole, glu glu come ha detto Paolo, cuoco di Scannabue, al secondo calice.

Marilena ha iniziato in solitudine, e questo non aiuta nei momenti in cui la tensione cala e le scelte pesano come macigni, un viaggio che si intuisce lungo e ricco di soddisfazioni ma come in ogni novità c’è sempre un po’ di paura, di timidezza e malgrado abbia già azzeccato molte scelte, sento nei suoi vini una leggera mancanza dettata forse dal timore di esagerare o di ricadere negli stereotipi, per cui certe volte mi sono parsi un po’ poco ricchi in bocca, poco masticabili ma questa non è una critica, anzi è la certezza che Marilena potrà fare ancora meglio e noi bere vini sempre più buoni!
Kampai

Luigi

venerdì 12 aprile 2013

Rugoli Vecchie Vigne 2011, Garganega, Davide Spillare di N.Desenzani


Naso etereo e consistente mette insieme sottigliezza con zic di cera e aromi da infusioni con miele, tipici della macerazione, ma pure un certo fruttato.
In bocca è coerente, con acidità viva e rinfrescante, balsami, un bell'uso del legno e, benché più tendente verso gli idrocarburi (ancora appena accennati), evidenzia una carnosità da frutta.
Di mela e pera appena acerba.
L'alcool è ben presente, ma lavora in freschezza balsamica, evitando di appesantire.
Bella sapidità forse ascrivibile in parte ai terreni vulcanici.
Consistenza e un tannino filiforme completano il quadro di un vino di nervi e muscoli, cui non manca quel giusto di ciccia per appagare anche il lato più ruffiano.
Bel fondo spesso di feccia e letteralmente masticabile.
Vino sfaccettato in equilibrio fra vinficazione in bianco e in orange, di bella beva.

giovedì 11 aprile 2013

Rosè di Refosco dal peduncolo rosso - Borc Dodòn di Denis Montanar - di Riccardo Avenia



Il Refosco dal Peduncolo Rosso, (il cui nome deriva appunto dalla particolare colorazione rossa del peduncolo in periodo di maturazione) si differenzia notevolmente dalla famiglia dei Refoschi, tanto che da alcuni studi è emerso che è esclusivamente questa varietà ad essere quella "vera". Un vitigno caratteristico e tipico del Friuli Venezia Giulia che ha una certa rilevanza qualitativa e territoriale.

L'azienda agricola Borc Dodòn di Denis Montanar si trova a Villa Vicentina, nella bassa provincia di Udine. Certificata Biologica dal 1996, aderisce al protocollo produttivo dell'associazione Renaissance du Terroir. Le viti provengono da una lunga ricerca e da selezioni di vecchi e storici vigneti locali, in modo da rispecchiare ed esaltare il territorio.

Ho avuto l'occasione di degustare - con grande soddisfazione - soltanto in una manciata di occasioni i vini di Denis Montanar, l'ultima volta a Fornovo 2012. Ricordo che quando assaggiai questo Rosè (l'etichetta recita: vino rosso da tavola, ma l'immagine rivela l'arcano) ne rimasi folgorato. Poi, saputo il prezzo (sotto i 10 euro) capii che questo vino sarebbe venuto a casa con me.

Il colore è cerasuolo. Ammaliante, sensuale, si lascia penetrare dalla luce che leggera riflette il colore. Appena versato ha una virgola di carbonica che crea pungenza ed eleva il floreale. L'etichetta è la sua carta d'identità: il sentore di rosa è netto, intenso e fresco, al quale si affiancano le fragoline di bosco ed il ribes. Scorza di agrumi, erbe aromatiche e quel profumo che si avverte - strappando le erbacce nell'orto - quando ci si ritrova in mano il ciuffo intero, con le radici ed una porzione di terra attaccata. La spinta balsamica drizza l'intensità e volge tutto in crescere. Eleganza e portamento che si possono trovare solamente in un'affascinante donna.

Il sorso è affilato, snello, sapido, quasi salino. Il sapore è quello della rosa e dei piccoli frutti del bosco. Il tannino è lieve, l'acidità lo rende vibrante - che bella freschezza, si beve alla grande - lungo, balsamico, lascia il gusto del fiore e del frutto.

Pensavo di trovarmi di fronte ad una bevuta semplice, il solito rosato, invece questo vino dal carattere deciso e personale mi ha reso davvero felice. Non fatevelo scappare.

mercoledì 10 aprile 2013

Castelperso 2009, Podere Luisa di Andrea Della Casa



La mia curiosità spesso mi indirizza anche nelle scelte dei vini. Per questo a volte mi piace acquistare bottiglie di cui non ho mai sentito parlare e di cui non conosco assolutamente il produttore. In tal modo mi nego ogni aspettativa sulla bevuta. Senza contare che ciò accresce l'interesse per l'assaggio.
La scelta di questa bottiglia di Podere Luisa è proprio dovuta al suo essermi totalmente ignota a parte quelle poche notizie estrapolate dalla rete.
Il Castelperso deriva da uve sangiovese, colorino e canaiolo che nascono da vigneti di 40 anni. In vigna vengono utilizzati preparati biodinamici per fertilizzare il terreno, solo rame e zolfo contro i patogeni, niente chimica in cantina e nessuna filtrazione prima dell'imbottigliamento.
Stappata qualche giorno fa dopo vari mesi di riposo in cantina e non terminata nell'arco della serata.
Il giorno successivo le sensazioni nel calice erano mutate notevolmente.

Giorno 1
Si presenta con colore rubino orientato verso il granato, con leggera velatura.
Il primo impatto mi lascia perplesso. Al naso arrivano odori salini, pungenti e penetranti. Salamoia, olive, solo in lontananza una parvenza di ciliegia. Anche in bocca la salinità è un po’ soverchiante, tanto che il ricordo va verso vini di mare, etnei in particolare. Non riesco a trovarci il nesso territoriale.
Col passare del tempo, lentamente, si iniziano a percepire da sotto questa coltre sapida timidi note fruttate che tentano di vedere la luce.

Giorno 2
Ed ecco che a 24 ore dall'apertura ritrovo quella "toscanità" smarrita. Profumi al naso di marasche, viola, cannella, una nota balsamica e brevi accenni terziari. Sorso deciso che gode di acidità tesa e invitante. Slanciato e succoso, esprime la rudezza tipica di un sangiovese ancora relativamente giovane. La salinità fortemente percepita la sera prima rimane, seppur relegata ad un ruolo marginale. Tannino ancora un po’ indisciplinato ma senza arroganza.

Non fatevi spaventare dai tempi. Non credo fossero necessarie 24 ore per far uscire la vera natura di questo vino, bastava semplicemente stapparlo qualche ora prima. Cosa che io non avevo fatto.

lunedì 8 aprile 2013

Neuroni sparsi (III) di N.Desenzani



Barbera d’Alba 2011, Rinaldi
Forse un filo anticipata la commercializzazione, ha bisogno di un bel po’ d’aria per scoprirsi. Ma quando parte chi la ferma più? Il tocco Rinaldi spacca e ogni volta mi fa fremere di godimento. Oggi va giù quasi come vin de soif, ma domani sarà la Grande Barbera Rinaldi che si tinge di mille colori come le foglie d’edera in autunno (autocitazione).


Terzolo Ortrugo Frizzante 2011, Marco Cordani
Omaggio di Luigi che sa che l’Ortrugo è una mia passione da quando l’ho scoperto con Croci 2009, questo rifermentato è riuscito a fare breccia. Di freschezza mozzafiato riesce a infilarci dentro un’intrigante nota di cuoio, che mi ha conquistato. 1350 bottiglie che credo abbiano reso felici almeno 1350 persone. Anche se mi dicono che qualche isolano fuori sede (!) faccia incetta dei vini di Marco Cordani, vanificando quest’equazione ottimistica!


Labaia Monterosso Frizzante 2011, Marco Cordani
Sempre omaggio di Luigi siamo qui sul versante aromatico del piacentino. Base Malvasia di Candia al 40%, corroborata da Moscato al 10% e bilanciati per l’altro 50% per metà da Ortrugo e metà da Trebbiano raggiunge un equilibrio aromatico sorprendente. Altro rifermentato da beva a secchi.


Terre Eteree 2008, La Busattina
Nel berlo ho scritto un tweet in cui dicevo “fra Le Boncie e Collecapretta”. Complice un blend di sangiovese e ciliegiolo, assenza di so2 aggiunta, un legno non troppo invasivo, ma che lavora sul versante balsamico molto bene, ho trovato questo un bicchiere appagante. Ctonico e succoso.


Audace 2010, Ruché, Ferraro
Altra scoperta che mi ha folgorato. Un’aromaticità declinata in un vino arcano che sembra provenire da un passato remoto. Torbido con fortissime note di arancia sanguinello, minerale sapido, a tratti barberico. Anzi, talvolta è la Barbera che inspiegabilmente e inaspettatamente tira fuori un lato aromatico. Forse che rucheizzi? Un vino memorabile. Per fortuna ha cambiato etichette ;-)


Grignolino L’Intruso 2011, Laiolo Reginin
Sulla scia dell’assaggio delle Barbera di questo grande produttore di Vinchio, ho voluto assaggiare il suo Grignolino un po’ “fuori zona”. Me ne sono innamorato. A partire da un etichetta che incuriosisce per il tema erotico, e stupisce su un Grignolino ancor più, ho trovato un vino di grandissima stoffa. Che ossigenandosi decolla verso l’iperuranio della beva e se già avevo milioni di motivi per esser adepto di questo vitigno, adesso ne ho qualche milione in più.

venerdì 5 aprile 2013

Neuroni sparsi (II) di N.Desenzani



Chateau Musar 2003
Non voglio dir tanto di questo grande vino-monumento. Ogni volta che mi sia capitato di berlo, ho avuto l’impressione di un vino straordinario. Anche in questa versione 2003, forse un po’ meno austera di altre, ti soffermi a pensare al fatto che è un rosso a cui praticamente non manca nulla.



Rossese di Dolceacqua 2010, Perrino
La 2010 in quel di Dolceacqua penso verrà ricordata come annata benedetta. Perrino lavora come sempre fuori da ogni schema e un mezzo bicchiere assaggiato qualche mese fa mi aveva stupito per la timidezza dell’espressione del suo Rossese 2010, dopo aver bevuto un 2008 ultra ricco e sontuoso. Ma amo sempre più i vini che parlano a bassa voce e quell’assaggio ha scavato nei mesi successivi un varco nella mia curiosità. Infine bozza presa e scolata. Perrino ha sempre qualche imperfezione, ma la personalità dei suoi vini a me lascia sempre ammirato. E infatti questo è un gran vino, che si sta modificando un po’ alla volta, ma quando arriva nel bicchiere e poi in bocca ti spinge a invocare di gaudio: Rossese! (chiedo venia per l'etichetta del 2008, non ho ritrovato la 2010).


Ça faye douze 2010, Domaine Philippe Delmée, Vin de France
Direttamente dalla Cave des Papilles dove ormai il mio amico che va spesso a Parigi è di casa, da quando gli commissiono i miei acquisti curiosi verso quello scoppiettante mondo dei vini francesi fatti di etichette variopinte e comunicatrici di valori. Di vigne centenarie e storie di eccentrici produttori…  Philippe Delmée fino a pochi anni fa faceva il prof. di matematica. Adesso fa il vino. Senza solforosa a Faye in Anjou. Questo blend da cabernet franc e grolleau punta sulla beva e fa centro. Il nome del vino, che essendo Vin de France non poteva avere il luogo di provenienza dell’uva in etichetta, se la cava con un gioco di parole che invece non solo nomina il luogo, ma fa un vanto della bassa gradazione alcolica. Bravò Philippe!
Ricordiamo dunque il monito-jeux-de-mots: “nul n’est censé ignorer la Loire!”. Appropriato.


Sól e stéli  2011, Crocizia
Segnalo il sauvignon rifermentato di Marco Rizzardi nell’annata suscritta perché è bottiglia veramente speciale. Elegante, ma con una gestione della leggera aromaticità del sauvignon che dona carattere e lo solleva secondo me molto sopra l’annata precedente. Che era già molto buona.


Barolo Marcenasco 1990, Renato Ratti.
Al di là di tutto, quando trovi una boccia di 22 anni, che ti dà l’impressione di essere bevuta nel suo momento migliore, non puoi che toglierti il cappello e inchinarti davanti a Monsù Barolo. Chapeau!


Tres uves 2008, Barranco Oscuro
Esperienza oltre. Un bottiglia, questa cuvée di Barranco Oscuro, che sfida le leggi dell’enologia, della fisica, della chimica, della critica enologica. Se trovo 25 euro per fare un altro giro, prometto che cercherò di raccontare questo vino dell’altromondo!


Rossese di Dolceacqua Superiore Posau 2010, Maccario Dringenberg
Dovevo assagiare almeno uno dei due grandi cru di questa produttrice, in questa annata che li vede trionfare fra i migliori vini italiani. Devo dire che l’esordio appena aperta la bottiglia mi ha lasciato un po’ sconcertato. Poi con un po’ di ossigenazione in effetti viene fuori grande eleganza, freschezza, precisione. Un pelino tecnico per i miei gusti e la dinamica quasi troppo tipizzata, ma bisogna riconoscere il grande risultato.

mercoledì 3 aprile 2013

In principio era il latte. La meccanizzazione delle vacche nel Parmigiano Reggiano di Andrea Della Casa


Il Parmigiano Reggiano è uno dei migliori (con un pizzico di partigianeria potrei dire IL migliore) formaggi italiani. Ma mentre sulle tavole spopola e crea consensi unanimi, all'origine non sempre ha una fama impeccabile.
Tutti o quasi conoscono il metodo di produzione ma in pochi forse sono a conoscenza delle spossanti condizioni di vita delle vacche in stalla, tenendo anche presente che oggi sono decisamente migliorate rispetto ad un passato non troppo remoto. Un tempo la stabulazione era fissa, con la vacca legata alla "posta" (prima groppa-groppa poi testa-testa) che le permetteva due soli movimenti: sdraiarsi e alzarsi. Ora le stalle sono quasi tutte a stabulazione libera, il che significa una zona di passeggio, una zona di riposo, una zona di alimentazione con mangime "a rilascio controllato" (ciascuna bovina ha al collo una sorta di collare che interagisce con la mangiatoia attraverso un sistema computerizzato di modo che il macchinario riconosca univocamente l'animale e gli conferisca la quantità di mangime pre-programmata) e una zona di mungitura (automatica ça va sans dire).
La razza maggiormente presente nelle stalle da Parmigiano Reggiano è la Frisona che rispecchia al meglio le esigenze di mercato dell'uomo in quanto produce quantità di latte ben superiori a tutte le altre razze. In realtà ultimamente si stanno riscoprendo anche categorie autoctone un tempo abbandonate come la Bianca Modenese o la Rossa Reggiana.
E' doveroso dire che il disciplinare di produzione del Parmigiano Reggiano NON VIETA la somministrazione di mangime OGM alle bovine (a meno che non si lavori in regime biologico dove gli Ogm sono preclusi) e da parole di vari casari "...praticamente tutti i mangimi contengono soia Ogm".




Momento importante della catena produttiva è la prima fecondazione: si cerca di coprire (fecondare) la manza il prima possibile per il semplice fatto che finché non partorisce non produce latte e per l'azienda è puramente un costo (mangia e non produce). Ma se si anticipa troppo la fecondazione e l'animale non ha ancora terminato la sua fase di crescita, se ne arresta lo sviluppo, e una bovina poco sviluppata darà meno latte, in proporzione mangerà più mangime (più costoso) rispetto al fieno (perché lo stomaco rimane ridotto e il fieno è un alimento che fa volume) e in futuro potrà avere problemi di parto. La tendenza quindi è quella di coprire l'animale intorno ai 15-20 mesi di vita. Dopo il parto la manza diventa vacca.
La fecondazione al giorno d'oggi è esclusivamente artificiale. Mantenere un toro è costoso (mangia e non produce latte) e le vacche, stanche e sfiancate dalle superproduzioni, difficilmente sopporterebbero una fecondazione naturale. Anche se bisogna ricordare che la percentuale di riuscita dell'attecchimento dell'ovulo sarebbe maggiore proprio in quest'ultimo caso. Può succedere infatti che la fecondazione non vada a buon fine, e dopo un paio di prove fallite la vacca viene inesorabilmente destinata al macello.
Ma la fecondazione artificiale presenta troppi vantaggi dal punto di vista commerciale. L'uomo ha ormai il totale controllo sulle nascite: può effettuare il miglioramento genetico incrociando semi di toro dai genomi migliori e ovuli di vacche dall'alta produzione lattifera, e attraverso il seme "sessato" può anche predeterminare il sesso del nascituro (con una certezza >95%).



Altra tecnica particolarmente utilizzata è quella dell' embrio-transfert per la riproduzione genomica di una vacca di grande pregio ed elevata produttività. Vengono somministrati ormoni all'animale per indurre un'iperovulazione, dopodiché si effettua la fecondazione artificiale e passati 7gg si prelevano gli ovuli fecondati che, congelati, si potranno poi impiantare in altre bovine al momento opportuno. Il trasferimento degli ovuli in vacche diverse è fondamentale in quanto da parti gemellari si concepirebbero, in genere, un maschio e una femmina, e nel 90% dei casi la femmina risulterebbe sterile (quindi pressoché inutile dal punto di vista economico) visto che il maschio già da feto produce una serie ormoni che provocano squilibri nella sorella. Il costo dell’embrio-transfert si aggira intorno ai 300 euro.


Il vitello appena nato, viene scolostrato artificialmente (appositamente per non farlo attaccare alla mammella) mungendo il colostro dalla vacca e somministrandolo poi al nascituro attraverso un secchio annesso di una tettarella. La vacca appena partorito produce il colostro, un liquido giallastro fondamentale per il piccolo nelle prime ore di vita perché ricco di vitamine e perché gli conferisce quegli anticorpi necessari contro le infezioni, ed ha anche effetto lassativo per espellere il meconio (materiale presente nell'intestino del feto che potrebbe altrimenti causare occlusione intestinale).  Dopo scolostrato il vitello verrà nutrito solo con latte in polvere (più economico di quello materno) e viene quindi separato immediatamente dalla madre, infatti in caso di allattamento naturale la bovina potrebbe poi avere problemi ad attaccarsi alla mungitrice automatica.


Come si sa per produrre il Parmigiano Reggiano (e tutti gli altri formaggi) viene utilizzato il caglio, enzimi che vengono estratti dall'abomaso del vitello (per il Parmigiano non è possibile usare altre tipologie di caglio) e per fare ciò è necessario uccidere l'animale. Oggi in realtà pare sia anche possibile prelevare il caglio evitando tale barbara procedura con una metodologia simile alla gastroscopia. Non so poi quanti allevamenti optino per questa seconda soluzione.
Nel finale spezzo una piccola lancia a favore di questo formaggio nella "disfida" col Grana: le vacche da Parmigiano Reggiano non possono essere alimentate con insilati a causa della possibile presenza di batteri Clostridium che potrebbero causare rigonfiamenti tardivi alle forme di formaggio. Questo tipo di alimento, più economico di fieno e mangimi, è invece ammesso nel Grana Padano in quanto in caldaia viene poi aggiunto un antibatterico (oggi il lisozima un tempo la formaldeide finché non si è scoperto essere probabilmente cancerogena).



Questa è la procedura adottata nella grande maggioranza delle stalle (non tutte, alcune più vivibili esistono) e la ricerca in questo ambito è sempre indirizzata verso un unico obiettivo che è quello di aumentare sempre più la produzione di latte. Le vacche grandi lattifere (nell'ambiente chiamate "campionesse") arrivano a produrre fino a 50-60 litri al giorno e vengono portate alle fiere come trofei da esposizione, senza preoccuparsi che proprio a causa di questa elevata produzione le mammelle diventano molto pesanti e provocano seri danni agli arti posteriori, sono infatti frequenti i casi di zoppie.
A questi ritmi la vita media delle vacche si aggira intorno ai 4/5 anni.

martedì 2 aprile 2013

Tre assaggi extra-ordinari. Di N.Desenzani


E poi capitano quelle settimane in cui quasi ogni bottiglia stappata è una sorpresa positiva.
La selezione continua, con la ricerca dell'occasione giusta, dei vini per imparare, a tratti porta dei frutti, che ripagano delle tante mezze o complete delusioni.
Sono bevute queste, che da un lato consolidano delle certezze, dall'altro danno nuovi spunti. Ma in ogni caso sono vini che danno felicità dalla prima all'ultima goccia della bottiglia, lasciando, se mai, un tocco di malinconia quando sono finiti.

Vignes centenaires "le ponge" 2010, Cabernet Franc, Le Moing
Di grandissima profondità. Stile no so2 lascia il gusto libero e mobile. Paga leggermente sul secondo giorno. Molto bella la struttura un po' ruvida, di forte espressività. Un selvatico turbine di bosco, terra, fruttini, sassi. Tannini, acidità, contrasti. Austero e fresco.

So San 2010, Tai Rosso, Maule
Grenache al cubo su suoli vulcanici, freschezze da brivido. Acidità bellissime, spolverate di zucchero a velo. Frutti di bosco maturi dolcissimi. Tabacchi e drogherie di una volta. Golosità. Pasticceria. Persistenza balsamica. Mmmmm chebbuono. E i denti lisci, il cavo fresco pulito e profumato e una beva da coma etilico. Naso pungente, boschi. Tannino continuo e liscio, come di lavagna. Talco mentolato. Plus: nonostante no so2, al secondo dì ancora perfetto.

Adonis 2010, Pineau d'Aunis, La Grapperie
Una sorta di Grignolino storico, per corpo, trama, colore e stile. Vinificazione classicissima nel miglior dei sensi. Fresco, beverino, ma anche incisivo intenso e pieno di sfumature. Acidità viva, un finissimo tannino, sottile, con sentori di vecchia cantina sulla leggera aromaticità del Pineau d'Aunis. Molto bello.

Tanto per sintetizzare. Metto una lista di spunti che mi hanno fornito questi tre vini 2010.

1) Vigne centenarie, cosa ti danno in più.
2) No so2 aggiunta, cosa dà in più e talvolta in meno.
3) Nul n'est cencé ignorer la Loire!
4) Tai Rosso e Grenache, più che una identità ampelografica, vini che si assomigliano (penso a Gramenon, ma anche a qualche storica Granaccia di Quiliano).
5) Suoli vulcanici.
6) Come il Tai/Grenache legge il terreno.
7) Grenache, vitigno emozionale (credit to @RiccardoAv)
8) Pineau d'Aunis, le infinite soddisfazioni dei rossi leggeri quasi rosati.
9) L'analogia fra il Pineau d'Aunis e il Grignolino.
10) ...