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venerdì 29 marzo 2013

Munjebel bianco 7, Franck Cornelissen



Avevo acquistato nel 2011 a Solicchiata, durante il mio giro etneo, una bottiglia di Munjebel bianco, adesso dopo aver bevuto il Munjebel rosso è diventato imprescindibile per me assaggiarlo.
Curioso come una scimmia giravo intorno allo scaffale sino a che, alla prima occasione, l’ho aperto.
Macerato è macerato, ha il fondo che piace tanto a Niccolò Desenzani.
Profumatissimo di fiori e fieno e thè.
Intenso e mutevole epperò.


Ha una bevibilità incredibile,  rinfrescato da acidità fruttate, da leggero tannino “bianco”, da una consistenza piacevolmente watery.
Quasi sottotraccia, che dire, di una eleganza leggera con puntate magmatiche.
Kampai

Luigi

Ps
E un po’ mi pento di essere stato un giorno intero fra Sollichiata e Randazzo e non essere passato da Cornelissen.

mercoledì 27 marzo 2013

Bera Vittorio e Figli a Serramasio Canelli (AT)



“Questa collina orientata nord sud si chiama Serramasio dallo spagnolo sierra”
Poche parole di Gianluigi Bera, innamorato della storia dei suoi luoghi, dipingono un mondo incredibilmente lontano da noi, fatto di mercenari spagnoli al soldo del Marchesato del Monferrato o dei Savoia o dei Visconti o della Contea Astesana e delle continue guerre e annessioni e alleanze.
Un’epoca in cui Asti e l’Astesana, Casale, Alessandria e il Marchesato del Monferrato erano potenze economico militari che contavano molto nello scacchiere politico militare dell’Italia del nord.

Bera continua dicendo: “io sono Astesano non Monferrino, il Monferrato, è stata un’entità per lo più politica che si estendeva su un territorio molto vasto e variegato da Casale Monferrato a Volpiano vicino a Torino, Alba sino a Vercelli” (anche fino Varese, Milano, Genova ndr).

Pochi minuti e Vittorio Rusinà ed io eravamo travolti dalla cultura storica di Gianluigi, segno di un radicamento profondo e tormentato con i suoi luoghi e le sue tradizioni che lo hanno portato sin dall’inizio al rispetto della terra e della vita in essa contenuta.
Perché il voler essere bio non è solamente la volontà di avere prodotti sani e digeribili (il vino in fondo in fondo sano non è, l’alcool è pur sempre tossico) ma è il segno tangibile del rispetto verso la vita. Un attitudine etica e la volontà di non chiamarsi fuori dalla natura ma di farne parte perché:
 “Questo noi sappiamo: la terra non appartiene all’uomo, è l’uomo che appartiene alla terra.”*

Gianluigi Bera
Ebbene eccoci ospiti della famiglia Bera in un giorno di metà gennaio, la neve copriva i le colline, dopo goffi e scivolosi tentativi di passeggiare nei vigneti di fronte a casa, abbiamo visitato la cantina, attrezzata con le autoclavi (in acciaio smaltato) e i circuiti isobarici per la produzione di moscato e le vasche in cemento per il resto dei vini fermi.


Un piccolo filtro olandese faceva mostra di sé, simbolo di epoche passate e di sistemi di lavoro ormai inconcepibili. Il vino filtrato con questo metodo tutto in ossidazione, all’aria a contatto con decine di attrezzi, mani, filtri in cotone, per mantenere una qualche bevibilità doveva aver una “materia resistente” fuori dal comune e infatti Gianluigi ci diceva che gli areali di produzione del Moscato erano molto più ristretti rispetto a quelli odierni, ossia erano solo quelli dove l’uva dava grande qualità e ricchezza nei mosti, gli unici che avrebbero resistito allo stress di questa filtrazione e Canelli ricade in questi luoghi in cui terreni, radici, foglie, sole, uomini tutti uniti simbioticamente danno il loro meglio.

Mangiando e chiacchierando con il sole, che finalmente perforava le nuvole, abbiamo poi assaggiato:

l’Arcese 2010 un bianco a base cortese, sauvignon, favorita col frizzo della malolattica terminata in bottiglia, io amo l’Arcese, quando la carbonica è un po’ alta è fenomenale.



Poi la Barbera Verrane 2010 lievemente frizzante, dico solo che era glu glu!


Poi il Dolcetto d’Asti Bricco della Serra 2009 una rarità nel vigneto astesano (mi veniva da scrivere monferrino) molto buono, molto atipico, forse l’anello di congiunzione tra il Dolcetto di Langa e quello di Ovada, il tannino si arrotonda e il sorso si fa più terroso.


Poi la Ronco Malo, una Barbera d’Asti sia la 2009 sia la 2010 so2 free imbottigliata per una fiera Spagnola “H2O vegetal”, introverse e “ctoniche” quasi in contrappunto alla “cosmicità espansiva” del moscato, sanguigne e anch’esse terrose, per poi aprirsi verso toni più aromatici, insomma una barbera atipica ma vibrante, la sensazione è che le Barbera di questi posti da “Moscato” siano il “sangue dolce” della Barbera.


Poi il Moscato 2010 grasso ed opulento.
Poi un Moscato del 1986 il Bulles Endormies (dimenticato in cantina per lungo tempo) che era lì preciso e dritto nel bicchiere e incarnava la potenza e la longevità di questo vino sublime, intriso di cedri canditi e fiori confit e la sferzata sapido salina tipica di Serra Masio.


Poi il Moscato Leonardo un “vin moeullex” (sarebbe “amabile” il termine italiano ma mi ripugna) a 13,5% vol di alcool e 30 gr/l di zuccheri riduttori, da ostriche de Belon, ottenuto da un “super mosto” così per sfizio.

Il Moscato di Gianluigi e Alessandra non teme lo scorrere del tempo e soprattutto per come lo vinificano, con delicatezza e scarso intervento tecnico esterno, segna molto le annate per cui il 2010 che amo molto è ricco quasi opulento, grasso il 2011 è più tagliente e quasi citrino con acidità e sapidità accentuata, il 2012 sembra ricordare il 2011 per freschezza e verticalità agrumata e salviosa.
Che non manchi mai una bottiglia in cantina.
Kampai

Luigi

martedì 26 marzo 2013

L'importante è che sia buono. Siamo sicuri?



Sul web e non solo la diatriba vino naturale vs vino industriale (chiamateli come volete senza commentare l'etimologia, please) è sempre vivissima, e si tenta spesso di uscire dall'empasse di una presa di posizione scomoda con frasi del tipo: "L'importante è che il vino sia buono".
Affermazione con cui mi posso trovare d'accordo.
In parte.
Siamo proprio certi che è questo l'essenziale? Che il vino sia buono?
Voglio, provocatoriamente, incanalare quest'affermazione verso una domanda che pongo a chiunque, produttori (naturali e non), consumatori etc..

Quanto siamo disposti a pagare per avere un vino buono?

E non parlo in termini economici.
Mi spiego. Prendiamo ad esempio le grandi maison della Champagne, o gli chateau sulle rive dalla Gironda o ancora i domaine di Borgogna. Siamo tutti d'accordo che in quelle zone nascano vini eccelsi. Ma a quale prezzo?
Quando ci approcciamo ad una bottiglia di vino pensiamo mai alla sua genesi?
La Champagne per arrivare alla fama odierna ha praticamente annientato biologicamente un territorio bombardandolo di sostanze chimiche, e a Bordeaux e in Borgogna non è che stiano messi meglio.
Certo ho fatto esempi estremi ma esistono purtroppo varie realtà vitivinicole (anche da noi in Italia) che anno dopo anno disperdono nell'ambiente grandi quantità di sostanze nocive per riuscire ad ottenere un uva integra e perfetta.
Siamo disposti ad accettare questo per la gioia(?) di versarci nel calice un vino tristellato, pentagrappolato o che dir si voglia?
Siamo disposti a danneggiare irreparabilmente l'ambiente e mettere a serio rischio la nostra salute e quella dei nostri figli pur di bere un ottimo vino?
Il fine giustifica comunque i mezzi?
Sia ben chiaro questo invito a riflettere è rivolto tutti, bio e non, naturali e convenzionali, perchè sappiamo bene che anche eccessi di rame e zolfo si accumulano nel terreno e pure le piretrine ammesse nel biologico possono essere tossiche per l'uomo e non sono assolutamente selettive per gli insetti. Con ciò non voglio dar voce ad una facile polemica, mi rendo conto che oggi in ambito agricolo è difficilissimo non utilizzare la chimica per difendere le colture da malattie e parassiti, ma è altrettanto vero che spesso certe sostanze vengono utilizzate e distribuite con molta superficialità e poca consapevolezza ("melius abundare quam deficere"), contribuendo in questo modo anche alla creazione di ceppi resistenti di patogeni. E da qui è un circolo vizioso. Perciò mi chiedo se questo abuso è realmente necessario o perchè è più rapido e meno faticoso di pratiche agronomiche alternative?
A volte bisognerebbe rendersi conto che se per avere uva sana occorre utilizzare quantità eccessive di sostanze chimiche forse quel luogo è poco adatto alla viticoltura, a prescindere dagli interessi economici che questa rappresenta per quel territorio.
Scendendo poi in cantina sappiamo che sono davvero centinaia gli additivi ammessi in ambito enologico, e proprio perchè ammessi per legge non dovrebbero (il condizionale è d'obbligo) essere nocivi per la salute umana. Io non ho assolutamente le competenze per discutere di questo argomento e lo affronto solo con gli occhi e i dubbi del consumatore medio chiedendomi: se la tossicità acuta è comunque controllata si può dire lo stesso per quella cronica?
Forse lo sapremo veramente solo tra parecchi anni.
A questo punto vi starete chiedendo se voglio indurvi a bere vini cattivi.
Assolutamente no. Ci sono ottimi vini (anche di produttori che non per forza rientrano tra i c.d. naturali ma che adottano pratiche agricole e non, di minimo impatto) prodotti nel rispetto della natura e dell'uomo, e ci sono ottimi vini prodotti senza curarsi di ciò che ci circonda.
Però noi li beviamo entrambi e quindi la risposta al titolo diventa ovviamente sì.
E in certi casi io mi sento un po' irresponsabile.

lunedì 25 marzo 2013

Stefano Bellotti, appunti sparsi fra Novi Ligure e Torino di Vittorio Rusinà




Stefano ha i tratti di un cavaliere del 1300, è cavaliere ed eroe lo è di certo nel difendere l'approccio naturale e biodinamico all'agricoltura e alla vita, per questo è stato scelto fra i campioni di #barbera3

Cascina degli Ulivi è un luogo magico sotto la neve che scende copiosa, colpisce vedere vacche, tori, asini, oche che stanno all'aperto, un cittadino come me li immagina al riparo nelle stalle al caldo

"Le oche mangiano l'erba e le uova di insetti dannosi per il vigneto e le altre colture

Per l'essere umano il rapporto diretto con il prodotto agricolo è vitale.

L'agricoltore fa paura perchè è libero.

Nel giro di due generazioni il grano ha perso di 50 volte il suo valore di acquisto.

Oggi in Cascina siamo 20 persone a lavorare.

In Italia si incomincia a parlare di biologico alla fine degli anni '70

La flavescenza dorata è un problema che non si riesce a debellare sia con la chimica sia con il bio.

La flavescenza sta mettendo in pericolo in Italia la coltura della vigna.

Bisogna pensare ad un nuovo modello di vigneto per uscire dal problema flavescenza e fillossera.

La fermentazione dell'uva è un momento sacro di trasformazione.

Non ci può essere il pane e il vino senza la mediazione dell'uomo agricolo in un processo naturale.

Le radici della pianta della vite possono arrivare fino a cento metri (normalmente fino a cinquanta), solo la pianta della quercia la supera è arriva fino a duecento metri di profondità.

Terroir non territorio che in francese si scrive territoir.

L'ascolto cosmico e l'ascolto della vita delle piante

Nel futuro il vino dovrà sempre più sviluppare il suo aspetto mercuriale: comunicare e portare luce.

Il sistema batterico è intelligente.

Calcolo e comprensione sono in contrasto.

Il grano naturale penetra nel suolo fino a 12 metri e i filamenti radicali possono raggiungere i 5 km. di profondità. Il grano trattato con prodotti chimici penetra fino a 6 metri ma i filamenti radicali si fermano a poche centinaia di metri nel suolo.

La paura è il vero problema.

Un vino che fermenta dopo 4 anni è un miracolo.

Aggiungere solforosa dà al vino verticalità, ma toglie la percezione.

C'è un mondo vivo nelle terre agricole naturali, microorganismi, entità spirituali (quelle che nelle favole vengono chiamate fate, folletti, ondine, salamandre...) che lavorano , che aiutano il lavoro dell'uomo.

La vite a piede franco consente produzioni di migliore qualità e una generale superiore robustezza della pianta.

Il mandorlo va d'accordo con la vite.

Loira? dovete assaggiare i vini di Nicolas Joly

Toscana? conoscete Terre a Mano? e la Fabbrica di San Martino? La Fabbrica di San Martino è un posto meraviglioso.

Cascina degli Ulivi è vigne, grani antichi, orto, frutteti, vacche, tori, oche, pane, agriturismo, yoghurt, formaggi, vini, marmellate."

domenica 24 marzo 2013

Quando sento sostenere...


Quando sento sostenere che le pratiche biodinamiche sono pratiche senza fondamenti scientifici, ecco in quei casi penso a questo passo di Thomas S. Kuhn.
“…una delle cose che una comunità scientifica acquista con un paradigma è un criterio per scegliere i problemi che, nel tempo in cui si accetta il paradigma, sono ritenuti solubili. In larga misura, questi sono gli unici problemi che la comunità ammetterà come scientifici e che i suoi membri saranno incoraggiati ad affrontare. Altri problemi, compresi alcuni che erano stati usuali in periodi anteriori, vengono respinti come metafisici , come appartenenti ad un’altra disciplina, o talvolta semplicemente come troppo problematici per meritare che si sciupi del tempo attorno ad essi.”

venerdì 22 marzo 2013

Anomalie urbane e sensibilità cosmiche



Le Scodelle è un restò di Torino, in via Stampatori 16/c, molto french bistrò, fa cucina emiliana e si trova sul confine dell’antico Castrum romano.
Da un lato della strada (via Monte di Pietà), dove c’erano gli orti sino al Rinascimento, ora troneggiano imponenti costruzioni otto-novecentesche infisse come cubi nella maglia viaria rigorosamente quadrata, dall’altro lato ci sono palazzi e chiese per lo più barocche, schiacciate l’un l’altra e stirate in planimetria per seguire le devianze viarie medioevali che hanno un po’ deformato il Castrum ortogonale romano.
Vestigia di una città che cresceva su se stessa inglobando il passato, una città ricorsiva.
Densità edilizia medievale contrapposta agli spazi liberi dei grandi boulevards di Haussmanniana memoria, voluti dalla retorica medica della circolazione dell’aria.
Divagazioni, perdonatemi.
Ero, come dicevo, alle Scodelle con lo chef  Valter Giletti d’Alanno per assaggiare un po’ di vini frizzanti emiliani.
Ne avevo portati quattro: S’cett 2011 e Besiosa di Crocizia, Libeccio 225 2011 di Podere Cipolla, Cinque Campi rosso 2011 di Cinque Campi.
Iniziamo dalla Besiosa ottima, ne abbiamo già parlato qui.
Poi l’epifania dei rossi frizzanti.
E’ stata una degustazione esaltante, sono venute fuori differenze sostanziali  e piacevolezze che aumentavano nel confronto, parallelo con gli altri vini, una sinergia inspiegabile, incalzante, parossistica.


Iniziamo col Libeccio 225 di Denny Bini alias Podere Cipolla ed è un Grasparossa ricco, da combattimento. Denso di profumi di rose carnose, caldo, intenso, tannini rotondi e cremosità, figlio di una macerazione spinta sulle bucce mi dirà al telefono Denny il giorno dopo.


Il secondo il Cinque Campi rosso, 2011 è un Grasparossa in taglio con Malbo e Marzemino, austero e asciutto, profumi minerali, tannini urticanti e bollicine che li esaltano, il più piemontese dei tre dice Valter.


Il terzo lo S’cett, 2011 è una Barbera con Croatina e Pinot nero ed è eleganza senza austerità e barberosità e godibilità allo stato puro, spumoso e cremoso, succo d’uva dolce-acido e profumi di griotte glu glu.
I riassaggi, le comparazioni olfattive, gustative fra i tre vini li esaltavano l’un l’altro come giocatori complementari in una squadra di volley: l’alzatore, lo schiacciatore-ricevitore e il centrale.
Ho chiesto a Valter perché abbia, unico forse a Torino, Camillo Donati in carta e lui mi ha risposto che gli piace e lo conosce, poi nel discorso scopro che ha frequentato le scuole elementari in una sezione sperimentale  “Steineriana” e questa spiega molte cose sulla sua sensibilità “cosmica”, non credete?
Uscendo sono finito sul marciapiede che era confine fra la città romana e la città moderna di ispirazione francese, due anime che a Torino a volerle cercare si trovano.
Un luogo di confine e come tale spazzato da turbini di senso e gorghi di contrasti, forse come i vini appena assaggiati.

Mentre scrivevo il post ho incontrato questa definizione dei vini Emiliani data da Soldati e io ve la propino, perché mi sembra vera e di ottimo auspicio:
“…Ed è un vino non pensoso, come i piemontesi; non folle, come i friulani; non fantastico, come i liguri. E’ un vino, più di ogni altro, amoroso.”

Kampai

Luigi

Ps
Attenzione questo è un post in potenziale conflitto di interessi:
Cinque Campi è un produttore che rappresento.

mercoledì 20 marzo 2013

Un 'Albana "Arcaica" quella di Francesconi Paolo - di Riccardo Avenia





Conosciuta ed apprezzata dai più nella versione passita, l'Albana è sicuramente il vitigno autoctono a bacca bianca principe della Romagna. Versatile, infatti la si può trovare nelle versioni spumante, secca, amabile, dolce ed appunto passita. Primo vitigno a bacca bianca ad aver ottenuto la DOCG: Albana di Romagna (1987) che dal 2011 è mutato in Romagna Albana. Viene ufficialmente riconosciuta in cinque diversi cloni: Albana della Bagarona, della Compadrona, della Gaiana, della Serra o Forcella ed Albana Gentile di Bertinoro.

Paolo Francesconi, viticoltore nelle colline sopra Faenza (Ra), ed associato al gruppo dei Bioviticultori, esce - in barba a tutto questo - con l'Albana Arcaica 2011 come vino da tavola bianco. Certificato biologico, dal 2002 inizia a seguire i criteri della biodinamica in vigna, espandendo progressivamente il metodo a tutte le fasi di produzione. Vinificazioni in acciaio e legno con leggera macerazione sulle bucce. In tutto 1.500 bottiglie.

L'altra sera, in compagnia di amici, l'occasione per stapparla.

Nel calice è compatta, di color oro ai lati, camomilla in profondità. Al naso dapprima intraprende sensazioni aromatiche, pungenza agrumata, fiori secchi ed un piacevole "effetto freschezza." Poi liquirizia, idrocarburi e un netto spessore olfattivo. Con l'innalzarsi della temperatura evolve e si allarga al cioccolato bianco, a note caramellate, cerate ed alla frutta secca. Il sorso è di carattere sapido, quasi marino, balsamico, glicerico e grasso, con un ritorno alla liquirizia. Ottima l'acidità ed il leggero - ma presente - tannino.

Un'Albana ricca, che suggerisco a chi ricerca la tradizione, a chi vuole avvicinarsi al vitigno o al metodo di vinificazione. Per la sua piacevolezza e per il gustoso carattere mai banale. Poi, c'è il prezzo: la si porta a casa con al massimo dieci monetine da un euro.

Evviva l'Albana.

lunedì 18 marzo 2013

Il pulcino bio e la gallina dalle uova d’oro



Ma cos’è il biologico?
Un corpus di norme e leggi e circolari applicative o una attitudine virtuosa?
E’ ormai palese (in realtà nei prodotti alimentari lo è da almeno un decennio) che la tendenza (invocando una vacua tutela del consumatore) sia quella di normare il bio con un corpus di leggi, quindi spingerlo verso una standardizzazione tecnico/legale del prodotto.
In realtà la situazione è più complicata (come tutte le dinamiche umane) e semplificando all’osso (ma non buttatelo che serve per il brodo) mi pare di vedere due anime che si agitano sul fondo, talora melmoso, del biologico.
Quello promosso dal basso che ha una connotazione virtuosa e quello cavalcato dall’agroindustria che scorge più che altro nuove aperture del mercato alimentare in crisi di saturazione da iperofferta.
Il primo, con i suoi chiaroscuri, abbraccia una concezione etica della terra, del cibo, del lavoro.
Il secondo clona, per lo più, i modelli produttivi dell’agricoltura chimico convenzionale e la certificazione diventa un valore aggiunto da spendere sul mercato. Per cui ci troviamo di fronte a produzioni intensive, monocolture con cultivar di nuova generazione in cui l’unica vera differenza è nei prodotti permessi per i trattamenti fitosanitari. Io non credo in questo modo di fare il “biologico” e penso che sia una “doccia verde” catartica, tesa a “ripulire” dei modelli agronomici che ci hanno portato all’attuale crisi alimentare, occupazionale e ambientale .
La gente vuole altro chiede dei ripensamenti più profondi su come produrre il proprio cibo nel rispetto della natura.
Io stesso aborro la concezione mercantile del bioindustriale che cade negli stessi errori dell’agroindustria di sottovalutazione dei costi sociali e nello sovrasfruttamento degli ecosistemi e nell’utilizzo di materie prime non rinnovabili.
Mi preme inoltre spendere due parole sugli aspetti legali (legati a filo doppio con il bioindustriale) che stanno anch’essi venendo fuori adesso (è di pochi giorni fa la rettifica del testo accompagnatorio del ViVit 2013 con l’eliminazione delle diciture “naturale” e “biologico”). Le richieste degli enti certificatori sono legittime, non tutti i partecipanti sono “certificati” e la dizione “naturale” a detta dei prof di Diritto tende a mettere in cattiva luce i vini esclusi da questa categoria che potrebbero essere visti dal consumatore come “innaturali” e quindi si configura una sorta di informazione asimmetrica. Altro tema caro agli avvocati è che senza leggi e norme si scatena l’abuso e si ampliano le zone grigie delle sofisticazioni. Anche se in Italia, si può notare facilmente, il proliferare di leggi e circolari e sanzioni non ha per nulla fermato le attività illecite, ahimè! Ha solo complicato la vita di tutti noi “moderatamente onesti”.
A mio avviso, con intenzioni strumentali, la questione è stata spostata dal terreno del fare e delle relazioni fiduciarie a quello formale delle norme e del commercio (non c’è nulla di male nel vendere ma come ho detto più volte esistono molti tipi di mercati).
Le norme, le certificazioni sono degli atti burocratici che non certificano la qualità del prodotto o l’eticità di un approccio agronomico ma solamente l’aderenza a protocolli che a loro volta sono definiti in sede legislativa.
Un processo che tende a svuotare di senso un movimento nato dalle persone e rivolto alle persone che ponevano in primo piano la loro/nostra esistenza sulla Terra e la loro/nostra sussistenza dalla terra.
Gli stessi enti certificatori vedono una buona opportunità economica nella crescita delle certificazioni e ne difendono con forza il valore “legale” e di tutela del consumatore.
Siamo di fronte ad uno scontro fra visioni, retoriche del mondo ed io con sconcerto vedo che l’obbiettivo di cambiare i modelli produttivi e commerciali, intrinseco al mondo del bio, è stato masticato e digerito dal complesso burocratico e commerciale che vede nei rapporti umani, fiduciari una imperfezione tecnica dei mercati.
Speravo ardentemente che da questa profonda crisi scatenata dalla finanza si potesse rinascere come araba fenice per costruire nuove relazioni e nuovi modelli produttivi ma qui seduto davanti al computer è come se vedessi già la sconfitta di tutti i miei sogni.


domenica 17 marzo 2013

Cuanta Pasion



e vigne stanno immobili 

nel vento forsennato 
il luogo sembra arido 
e a gerbido lasciato 
ma il vino spara fulmini 
e barbariche orazioni 
che fan sentire il gusto 
delle alte perfezioni



Cuanta pasiòn en la vida 
cuanta pasiòn 
es una historia infinita 
cuanta pasiòn
una illusiòn temeraria 
un indiscreto final 
ay, que vision pasionaria 
trascendental! 


Paolo Conte

venerdì 15 marzo 2013

Podere il Saliceto di Andrea Della Casa


Dopo tanto temporeggiare finalmente l’altro giorno sono riuscito a trovare il tempo per fare quei pochi chilometri che mi separano dalla cantina di Gian Paolo a Podere il Saliceto, per assaggiare e (soprattutto) conoscere quei vini che molto spesso ho sentito elogiare.
La delicata salita che porta alle porte del casolare è affiancata da una porzione dei suoi vigneti, Malbo gentile e Merlot, quest’ultimo utilizzato per impollinare il primo che è vitigno che mal si presta all’autoimpollinazione.
Imparo poi che il Merlot è stato il secondo vitigno (dopo il Lambrusco Salamino) più coltivato nella zona di Campogalliano fino agli anni ’70. Notizia che può sembrare insolita ma una spiegazione logica storica c’è.
Le prime tracce d’insediamento a Campogalliano risalgono all’epoca romana con la discesa dei Galli nella nostra pianura, dai quali deriva poi il nome del paese (“Campo dei Galli”). Proprio a loro si devono i primi impianti di Merlot.

L’azienda di Gian Paolo e Marcello al momento vede anche una cospicua produzione di pere (fonte di reddito sicura qui in zona), ma la prospettiva è quella di convertire la totalità di ettari aziendali in vigna.
Con calma. Strada facendo.
All’interno della cantina, che a fatica e non senza cicatrici ha retto alla potenza distruttiva del terremoto, troneggiano vasche in cemento, le preferite, anche se di ostica manutenzione.
La curiosità inizia ad assalirmi quando partono i primi assaggi da botte. Mi affascina provare il vino in divenire, quando ancora è in formazione
Il “Falistra” da vasca è un Sorbara ante litteram. Il gusto e i profumi sono già riconoscibilissimi, ma mancano ancora le bollicine che arriveranno con la rifermentazione in bottiglia.

Il Malbo, di grande estratto, diventerà invece vino fermo dopo l’assemblaggio delle sue due componenti, una parte affinata in cemento e un’altra in botte piccola (di Nesimo passaggio). Bei profumi, rustica e scalpitante la prima, più rotonda e distesa la seconda. Il blend finale che incontrerà la bottiglia vedrà poi prevalere di gran lunga il Malbo in cemento per dar vita ad una sinergia potenzialmente di grande equilibrio.
Con la stessa uva viene prodotto anche un Metodo Classico, il “Malbolle”,sfruttando la grande acidità intrinseca del Malbo.

Dopo gli assaggi del futuro mi attende un’accoglienza davvero calorosa preparata da Gian Paolo, a base di strolghino, stuzzicherie varie e la batteria completa dei vini di Podere il Saliceto.
Mi sono inchinato a cotanta grazia.
 
E seduti a tavola tra bicchieri di vino e appetizer si chiacchiera a lungo, si ride, si scherza.
Si parla anche di lieviti indigeni su cui abbiamo idee discordanti.
Per me sono un valore aggiunto, per lui non sono fondamentali per il risultato finale. Gian Paolo pone le sue idee ex professo, con una serie di annate di esperienza sulle spalle. Io posso opporre solo letture, ascolti e la mia incompetenza. Ma non è facile comunque smuovermi da questa convinzione. Nemmeno con prove scientifiche. ;)

A suo favore però parlano anche le bottiglie.



Il “BiFri” di quest’anno, per la prima volta a rifermentazione naturale, è forse il suo preferito. Bianco a base Sauvignon (più Trebbiano), fedele interpretazione dell’uva di partenza, bassi quantitativi di solforosa. Bevibilità sublime.
Ottimo sorso beverino anche il “Falistra” (anche questo rifermentato in bottiglia), bell’esempio di Sorbara fresco e vibrante.

Entrambi non vengono sboccati regalando così una leggera torbidità con l’agitazione della bottiglia.
A me affascina, a lui un po’ meno. ;)
Poi l’ ”Albone”, un incrocio tra Salamino e Sorbara. Stavolta la fermentazione è in autoclave per realizzare un lambrusco tipico, vinoso e pastoso da giovane (la 2011), di stupefacente finezza e linearità dopo qualche anno d’invecchiamento (la 2009). Alla faccia di chi dice che il lambrusco è vino da consumarsi giovane.


Prima di abbandonare il campo incontro anche Marcello, cognato di Gian Paolo nonché agronomo e commercial office dell’Azienda. L’intesa tra i due è veramente ottima, un connubio che mi fa pensare a tante future soddisfazioni per Podere il Saliceto.

mercoledì 13 marzo 2013

Barbera d’Alba 2010, Giovanni Canonica. Di N.Desenzani



Premessa: nonostante avessi già letto il racconto di Luigi di questa Barbera qui, e che mi abbia regalato lui questa bottiglia, nel momento in cui l'ho bevuta e ho buttato giù queste note, proprio non ci pensavo. Ma probabilemente qualche suggestione m'era rimasta. Per il resto è la grande Barbera che parla da sè!

Ci son Barbera che magicamente uniscono grandi acidità a grandi morbidezze (nb non dolcezze).
E la bellezza sta proprio nel contrasto, nel non esser integrate le due componenti.
Si parla di acidità ben gestita ( well managed acidity nel mondo anglosassone), ma sarebbe anche da dire morbidezza ben gestita.

Il gioco funziona ancor meglio se in mezzo a questa tenzone emerge la freschezza, in questo caso di frutti selvatici in mezzo ad aghifogli ed erbe balsamiche. Metteteci sottigliezza ed eleganza, tensione muscolare e il sorso si fa scattante e direi pure schioccante.
Ma il bello è anche che la grande Barbera è esaltata. Esposta in alcune delle sue peculiarità che ha in quei luoghi di Barolo, dove la vorrebbero piegare al paradigma della morbidezza e invece no, per Bacco, ti regala acidità estreme e irresistibili.

lunedì 11 marzo 2013

Rosso "Le muraglie" VdT, Voyat. Di N.Desenzani

Conosco molto poco la viticoltura valdostana. Per un caso fortuito, mi son trovato davanti una bottiglia di Rosso Le Muraglie di Voyat, Azienda di Chambave. L’etichetta mi ha colpito molto e ho fatto qualche ricerca in rete.


Non ho capito tantissimo di questo produttore, se non che Ezio Voyat, morto nei primi 2000, è stato uno dei protagonisti della rinascita enologica della Val d’Aosta negli ultimi 20, 30 anni (credit to enofaber). Che è ben conosciuto un suo moscato passito detto “Ambrato Le Muraglie”. Che la composizione del suo rosso è peculiare, con dolcetto e altri vitigni tipici della zona come il petit rouge e il gros vien. Che questi vini sono conosciuti dagli appassionati americani, in particolare a New York. Che dunque c’è qualche informazione su Cellartracker e addirittura qualcuno premia il suo rosso con 100 punti. Che gli eredi Voyat hanno preso il testimone e continuano la produzione.

Che si tratta di viticoltura eroica.
Come dicevo ha un’etichetta che mi piace un casino.
Quindi mi sono attivato e oltre a trovare a Roma da Trimani il Rosso 2008, sono anche riuscito a trovare una bottiglia dello stesso vino del 1993, o almeno l’enotecario la datava in questo modo, perché essendo vino da tavola, per rifiuto della DOC da parte del produttore, non vi è traccia di datazione in alcuna parte della bottiglia, né in etichetta, né sul tappo.
Scoprire vini nuovi dà sempre una certa eccitazione. E se in più si parla di produttori tradizionali, magari estinti, io mi illumino e le mie aspettative vanno alle stelle.
Il bilancio dell’assaggio di queste due annate è quello di aver scoperto un vino molto interessante, con una personalità ben definita reperibile nelle due versioni nonostante 15 vendemmie di differenza e il passaggio dal padre agli eredi nella conduzione dell’azienda. Un vino da scoprire e tenere come riferimento.


Rosso "Le Muraglie" 2008
Leggermente chiuso all’inizio, ma già fresco ed equilibrato, si apre lentamente, fino a divenir molto beverino e sempre più armonico. Bella materia, dinamica e vitale, forse un po’ impostato e tecnico per i miei gusti e in leggerissimo difetto di sostanziosità, con la quale a mio parere avrebbe guadagnato in piacevolezza e digeribilità. Frutta rossa e sentori più caldi di foglia di pomodoro, un nucleo austero e composto. Soggettivamente la mia mente è andata al Dolcetto, ma anche al Rossese di Dolceacqua e appena al Pinot Nero, ma alla lontana. Non v’è dubbio che appaia come vino adatto a invecchiare bene. Col livello di verificabilità che hanno queste affermazioni.


Rosso "Le muraglie" 1993
Indubbiamente lo stesso vino! Ma qui c’è una marcia in più. Insieme a un fruttino ancora integro, si è sviluppato un sentore di cuoio molto elegante. Mantiene grande freschezza.
Il naso è spettacolare, coll’anticipo del cuoio e del mirtillo del palato, e di una piacevole acidità pungentina e forse in lontananza un che di torrefazione. E una impressione quasi materica di incipriatura che hanno spesso i Pinot noir. Ritornando in bocca segnalo un’alcolicità che riporta a vecchi alambicchi e legni altrettanto usati. Una salatura che viaggia insieme al fruttato fresco conditi da un tenue terziario.
Bel sorso di austerità sapida. Riferimento mnemonico a tratti i nebbiolo di Ar.Pe.Pe.

domenica 10 marzo 2013

Il post “ho consigliato un bistrot a mia moglie…”


Il post “ho consigliato un bistrot a mia moglie…” ha scatenato un piccolo putiferio fra il pubblico femminile, sono stato tacciato di maschilismo ed altre amenità assortite.
Non mi sono offeso ma ci ho pensato, ragionato, mi sono interrogato, nessun appunto fattomi è passato inosservato nella mia testa, mai! anche quando ho palesemente ragione (quasi mai c’è l’ho, però ogni tanto capita).
In verità non ci pensavo più tanto perché sono sempre più convinto che il vino e l’asfittico mondo che gli gira intorno non sappia, non dico comunicare, ma anche solo far giungere ai più, un flebile cenno di esistenza in vita.
A conferma della mia tesi c’è stato un incontro di lavoro con una Farmacista, appassionata fondatrice di un bel negozio di alimentari biologici in un quartiere fighetto di Torino.
Lei guardava, appassionata bevitrice, con interesse e curiosità i vini del mio listino, alcuni li conosceva altri no però con estrema sincerità mi ha detto “Sa sono bellissimi vini questi, importanti, costosi ma qui vengono le donne a fare la spesa, venissero gli uomini, i mariti sarebbe un’altra cosa.”
Ha comunque fatto un ordine ma guardando il prezzo e non altre logiche, perché le signore con 350,00 euro di Laboutin o 400,00 di Jimmy Choo  ai piedi, con 700,00 euro della borsa di Stella McCartney al braccio, cosparse di creme da 120,00 euro del Dott Perricone e asperse con 100,00 euro di Love in Black di Creed ebbene, queste donne pralinate di denari e con carte di credito di metallo prezioso, hanno paura anzi sgomento ad acquistare un vino che superi la barriera dei 10,00 euro, anche meno per i bianchi.
Allora io dico con forza e profonda tristezza che la comunicazione del vino non raggiunge affatto le donne perché se le raggiungesse il mercato del vino sarebbe altra cosa da quel mondo depresso e vagamente tristanzuolo che è oggi.
Un esempio, a coronamento del mio ragionamento: ieri guardavo l’immancabile inserto di cucina di Elle e i piatti erano stupendamente fotografati a tutta pagina, i vini consigliati si limitavano a poche e scarne righe praticamente invisibili (tutti voi che leggete sapete benissimo che il vino si sceglie spesso per le etichette che sono la cosa che rimane più impressa nel nostro cervello).
Piangiamo e disperiamoci per l’incapacità dei comunicatori che tanti dissesti sta procurando al mondo del vino.

venerdì 8 marzo 2013

Neuroni sparsi (Parte I). Di N.Desenzani



Quando ho iniziato a scrivere sui vini che bevevo, cercavo di trovare sempre la concentrazione necessaria per fissare le mie impressioni. Ogni bevuta non scritta era un po’ un rammarico. Poi col tempo e le centinaia di degustazioni trasformate in parole, si è affacciata un’attitudine più trasandata. Da un lato perché se uno vuol esser originale a un certo punto diventa sempre più arduo non ripetersi, dall’altro per materiale mancanza di tempo e infine perché si tende ad avere un approccio più sintetico del tipo “mi piace, non mi piace, magari ne scriverò”.
Poi ci sono dei giorni in cui ripassi col pensiero un po’ di bevute che non hai raccontato e scopri che fra queste alcune erano memorabili ed è un peccato non trasferirle e condividerle con gli altri.
Già ai tempi mi ero inventato l’espediente di scrivere post dal titolo “note sparse”, perché allora questi pezzi di memoria dimenticata spesso esistevano come parole su materia scrivibile.
I seguenti invece sono davvero trascrizioni di pezzi di memoria neuronica, di cui talvolta esiste una foto. IPhonechediolobenedica.
Ci tenevo a condividerli e avevo bisogno di un defrag del mio cervello vecchio modello, ché altrimenti si inceppa.
Per numero e per non disintegrare il lettore ne vado pubblicando un tot alla volta.

Rosato 2007 Massa Vecchia
Grazie! Potrei fermarmi qui con la descrizione di questo vino. Il grazie è a Jacopo Cossater che ha attraversato mezz’Italia con questo forse ultimo esemplare esistente dell’annata 2007 per condividerlo col sottoscritto. Grazie a Massa Vecchia, che con questo rosato, oltre a innalzare la categoria a livelli sublimi, ci arriva con uve aromatiche, Aleatico e Malvasia. Un miracolo di beva e complessità. Un vero viaggio. Dico solo che dopo questo vino, mi sono convertito al Massavecchiaismo.

Vigna Ronchetto 1997, Lino Maga
Ho scovato fra i bui scaffali di un’enoteca 4 bottiglie di questo piccolo capolavoro di Maga, in annata strepitosa. Questo cru era così difficile da coltivare e forse non ne venivano così apprezzati i risultati che Maga ha deciso di non produrlo più. Mi è venuto un nodo in gola bevendo questa bottiglia in solitudine perché è una specie di Barbacarlo di medio corpo e media intensità. Barbacarlo alato.

Montemarino 2008 e 2009, Stefano Bellotti
Il giorno del suo compleanno, Vittorio aka Tirebouchon ci ha regalato l’ottovolante di una verticalina di Montemarino dal 2007 al 2009. Uno dei cru di Gavi di Stefano Bellotti, ne avevo raccontato sulle pagine di questo blog l’annata 2007, che era vino difficile. Che si poteva apprezzare tanto solo usando il cervello, perché il bicchiere era pieno di strane cose non tutte  convincenti. Quale sorpresa nello scoprire le due annate successive. Finalmente un’interpretazione del Gavi che mi ha fatto godere. Fresco e beverino, ma spessissimo. Dritto fra i grandi bianchi del Piemonte e non solo.

Ansonaco 2011, Carfagna
Colpo di fulmine, “mi straccio le vesti”. Finalmente un vino per il quale usare l’espressione senza la negazione davanti. Un solo bicchiere ne ho bevuto, ma sono certo di non sbagliarmi dicendo che è uno dei bianchi più buoni di sempre.

Granaccia 2009, Noberasco
Avevo raccontato di questo vino quasi due anni fa quando ne ero rimasto rapito per i tratti rustici, anti ruffiani, ma di grande personalità. L’ho ritrovato, terz’ultima bottiglia rimasta, in fase molto più composta ed elegante. La granaccia è uno dei vitigni che ho notato cambia tantissimo nei primi mesi e anni di vita. Comunque dopo due anni di affinamento in bottiglia ho trovato echi di Rodano e morbidezze quasi decadenti, e una lacrimuccia è partita.

Montepulciano d’Abruzzo 2006, Valentini
Difficile dir due parole per questo vino. Forse vale un po’ quello che ho scritto a proposito del Boca di Kunzli: quello che lascia attoniti è la struttura, la freschezza, la compostezza, l’equilibrio. Non tanto i descrittori che suggerisce, ma proprio la qualità della sua sostanza.

Rouge 2009,  Patrimonio AOC, Domaine Giudicelli 
Ribevo il rosso (niellucciu) di Muriel Guidicelli a distanza di un paio d’anni dall’ultima bottiglia presa in Corsica, che puzzava parecchio. Invece con quest’annata esce un vino semplice, sangiovesesco, ma più etereo, che sebbene non abbia qualità eccezionali è stato una bevuta piacevole.

mercoledì 6 marzo 2013

Bianco Toscano igt 2011 - Podere Sanguineto di Riccardo Avenia

Eccoci a svelare il secondo dei due nuovi avventori del bar:
Riccardo Avenia da Bologna autore del blog Odori Terziari.
Una ventata di freschezza scanzonata nelle nostre fila di “Brasiliani con la nebbia in testa” (così definiva  I Piemontesi Bruno Lauzi).
Riccardo è un portatore sano di allegria e simpatia.
Ma non è uno “spanizzo”*  e non millanta mai, è preparato e serio e soprattutto curioso e umile.
Affronta ogni vino senza pregiudizi, aperto e disponibile così come lo è nella vita e nelle amicizie.
Il compagnone che mancava per mitigare le derive depressivo-intimiste di Niccolò e di Andrea e mie e per dare il cambio, come ciclisti in fuga, a Vittorio nella sua funzione di sprone e di motivatore.
E’ l’avventore giusto per questo bar composto da un manipolo, che sta diventando legione, di riottosi anarcoidi enodissidenti.
Buona lettura
E che il vento soffi sempre al giardinetto!
Luigi

 *chiedete a lui cosa vuol dire

Ps
Il web è un mezzo, in cui riponevo fiducia in maniera altalenante, senza il quale però non avrei mai conosciuto nessuno dei miei attuali compagni di viaggio e senza tema di cadere in sentimentalismi devo dire che le persone migliori che abbia mai conosciuto in vita mia provengono da questo mondo immateriale che si è fatto, parzialmente, a grumi, materiale.



Il primo assaggio di questo bianco toscano, lo ricordo come se fosse oggi. Eravamo in cantina al Podere Sanguineto. Mentre Dora Forsoni si raccontava magistralmente, stappava e ci faceva degustare una piccola verticale di tutti i suoi vini rossi, io - attento - seguivo, assaggiavo e condividevo il tutto via twitter. Un istante dopo, il buon @tirebouchon mi scrisse: "fatti aprire il loro bianco. Ne hanno poco, buttati in ginocchio se dovesse servire: devi sentirlo". Così è stato e da subito è nata una passione. Ma quante ne sa Vittorio.

Impossibile però averne una bottiglia, tutte vendute. Per quasi due anni ho "fatto il filo" a questo vino, sarò passato in cantina almeno 6/7 volte, niente. Poi, gli ultimi giorni del 2012 la sorpresa: passando al podere per un saluto e per una piccola scorta di vino, Dora e Patrizia appena mi vedono esclamano: "abbiamo il bianco!". E così, per farla breve, ne ho fatto incetta.

Un vero vino territoriale, semplicemente buono, beverino e gastronomico, nel quale ci si ritrova lo spirito ed il carattere del produttore. Ottenuto da Trebbiano, Malvasia bianca e verde, Biancame e Grechetto, vinificato in cemento e niente più. In tutto, meno di 6.000 bottiglie.

Paglierino, vitale, che vira all'oro. Al naso dapprima escono le spezie, la camomilla, il miele, ed una fresca nota vegetale. In secondo luogo, frutta esotica, fiori gialli, salvia, mentuccia e qualcosa di officinale. Sottile, col tempo, estroso. Il sorso è fresco, acido, minerale con retrogusto balsamico. Glicerico e caldo, l'impatto dell'alcool è presente: in questo e su alcuni profumi maturi, la calda vendemmia 2011, ha sicuramente influito. Resta comunque piacevole e di meravigliosa beva. Io lo preferisco a temperatura più elevata, ne guadagna in profumi e sapore.

Immagino un caldo pomeriggio primaverile, il sole calante sulle dolci colline di Acquaviva, pochi amici (del bar) seduti ed una tavolata ricca di prelibatezze locali e, nel calice, questo buonissimo Bianco Toscano. A volte, alcune tra le più belle esperienze cominciano proprio così e questa, inaugurata oggi, lo sarà senza dubbio.

martedì 5 marzo 2013

Un viaggio tra Mosella e Reno: Weingut Clemens Busch di Massilmiliano Montess


Continua l’effetto Network con GUSTODIVINO



         Quindici giorni a girovagare tra Reno e Mosella lasciano il segno. Scoprire la profondità del Riesling, la sua capacita di mutare da vino secco a dolce compagno di meditazione. Rimanere affascinati dalle differenze rimarchevoli tra regioni e terroir: la mediterranea corposità della Rheinessen, sud del Reno, la mitezza della Reinghau, in Assia, la mineralità di Mosella e Nahe.

Ma anche le diverse interpretazioni dei singoli produttori lasciano una chiara impronta. Dai Riesling fruttati, all'aroma di pesca, di JJ Prum, all'acida mineralità di Busch e Dohnoff, passando per la sobria austerità di Heymann-Lowenstein.
Il primo incontro ravvicinato con il Riesling è con gli splendidi vini di Clemens Busch. Accolti gentilmente dalla Sig.ra Rita Busch in una romantica villetta Jugendstil a Pünderich, sulle rive della Mosella centrale, siamo stati colpiti dall'affabilità e dalla disponibilità della padrona di casa.
Nascondendo le spiegazioni sui vini tra le parole di un'amabile conversazione da salotto, ci ha fatto assaggiare praticamente tutta la produzione di casa Busch.

Rita Busch

La coltivazione è quasi eroica, con vigne impiantate su pendii scoscesi, tra pendenze anche superiori a 45°. La raccolta è ovviamente manuale e la vinificazione naturale, senza inoculo di lieviti selezionati. Le basse temperature autunnali ed invernali rallentano la fermentazione alcolica, la cui durata può protrarsi anche per mesi. 
L'esordio è stato d'impatto: appena seduti ci viene offerto un Marienburg 2008, giallo paglierino, dagli aromi di miele, erba fresca tagliata, con una sottile mineralità ma dall'acidità tagliente. Naso inebriante, palato coinvolgente ed  una bevibilità incredibilmente fluida.


La famiglia Busch possiede circa 11 ettari vitati in contrada Marienburg, suddivisi in sei particelle, ognuna delle quali con differenti caratteristiche orografiche e di composizione del terreno. Il vino degustato per primo deriva da un assemblaggio delle uve provenienti da tutte le particelle, e denota una complessità ed un'aderenza territoriale già degna di nota, oltre che una bontà sincera.
Le variazioni aromatiche tra le varie particelle esprimono la diversa capacità di espressione degli aromi varietali del Riesling e la differente profondità e mineralità del vino. Tali differenze dipendono sicuramente dai diversi terroir ma anche dalla variabilità dell'età delle vigne. Apparati radicolari più anziani, e quindi più profondi, tendono infatti a produrre vini maggiormente espressivi.



I profili aromatici si delineano chiaramente: il Raffes 2008 presenta delle note di frutta gialla e melone più evidenti con un'acidità più contenuta, il Falken 2008 è speziato e con sottili note fumé, Il Rothenpfad 2010 ci regala aromi di miele, limone e noce moscata.
La vera sorpresa è stato il Marienburg Fahrlay Terrassen 2010. Un vino impressionante, 15 g/l di residuo zuccherino con 10 g/l di acidità totale perfettamente bilanciati, al punto che la prima impressione al palato è quella di un Riesling quasi secco. Il colore, tipico, è giallo paglierino tendente al dorato. Gli aromi di fiori bianchi, frutta gialla e scorza di cedro si inseguono e si sovrappongono in un armonia oserei dire “sinfonica”. La profondità e la mineralità sono incredibili e completano alla perfezione l'immagine gustativa che questo vino è capace di donarci. La persistenza gustolfattiva si stempera dolcemente in un ricordo aromatico commovente, nostalgico. 


La degustazione prosegue con uno Spatlese 2011 ancora giovane, 100 g/l di zucchero, 8 g/l di acidità totale, delizioso, lievemente speziato, con note di miele di castagno.
A seguire un Marienburg Auslese Goldkapsel 2007 da uve botritizzate al 15%, semplicemente grande: giallo dorato intenso, al naso dona immediati effluvi di confettura di albicocche, seguiti da una florealità che spazia dal gelsomino alla zagara con note di erba fresca tagliata, pesca bianca, melone giallo, e lievi sentori idrocarburici, in secondo piano e ben bilanciati. 



Busch è distribuito in Italia dalla Velier di Luca Gargano, con la linea Tripla A che raccoglie i vini naturali del catalogo. Velier seleziona però solo una parte della produzione di Clemens, ed in questa selezione non troverete il Marienburg Fahrlay Terrassen 2010 qui recensito.

Weingut Clemens Busch
Kirchstrasse 37 - 56862 Pünderich
Telefono: 06542 - 22180
Fax: 06542 - 900720
http://www.clemens-busch.de/