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lunedì 30 luglio 2012

Ode al Vermentino, di N. Desenzani

Quasi tutti i Vermentino vermentineggiano.
Però intorno a un risultato tipico del vitigno, si giocano le differenze, le scelte stilistiche.
E diversi i gusti di chi si affilia a questo mediterraneo, ormai tirrenico, vitigno. Luoghi di elezione appunto le sponde tirreniche financo ai lati occidentali delle due grandi isole che fanno i confini fra Italia e Francia in mare.
A chi piace affilato e acido a chi sontuoso al limite del dolce decadente, a chi ligure di ponente a chi di levante, a chi tosco. A chi gallurese a chi sudcorso, a chi di Patrimonio e su su fino alla punta del dito dove domina il Capo.
Bello questo suo esser aromatico senza troppa convinzione.
Io per mia parte lo amo bilanciato beverino e marino di base giustamente acido, ma senza sferzate, con una certa grassezza, ma che non ecceda, profumato, ma non troppo fruttato, semplice e dissetante. Ma che se ti concentri c'è sempre qualcosa che sfugge.
È il profumo dei limoni quando è morbido e va fondersi con la crema in uno degli sposalizi più azzardati e più azzeccati dell'umana scienza culinaria. È banale, è scontato, e va giù più in fretta di quanto ci metti a capirlo e interpretarlo. È versatile infine, vivo e mutevole.
Così amo il Vermentino.
E vi prego non filtrate che poi un filo di nobile gas carbonico farebbe comodo anche a voi, produttori, ché beva sale alle stelle, impicci di conservazione via vanno e un afflato vitale spinge il vostro succo in una danza di piacere.
Ecco poi ce n'è col legno piccolo, e con quello più grande, con l'acciaio e col cemento.
Poi c'è chi lo macera sulle bucce, ma questa è un'altra storia.  
Ma se gioca sul filo di tutti i possibili equilibri instabili sarà per me un grande vino.
Di beva così piacevole che pochi gli staranno dietro.
Rispettatelo, non violentatelo, non filtratelo, non mettete i lieviti banali.
Vi ripagherà bene. Io ne sono certo!

Una postilla
Io che scrivo di Vermentino non sono credibile e pecco di superbia. La mia assoluzione si può ricercare soltanto nella spensieratezza dalla quale è scaturito questo claudicante gioco di parole.
Se cercate qualcuno che il Vermentino lo conosce per vocazione è facile indirizzarvi verso Fabio “Duff” D’Uffizi. E troverete anche penna di altro (decisamente superiore) stampo. Anche la foto è rubata a lui.

domenica 29 luglio 2012

Da Modica a Sampieri un viaggio al sud del sud


Da Modica a Sampieri venti chilometri, l’altopiano Ibleo mette i piedi in acqua.


Modica, partenza.
Cretti, valli qui chiamate cave, più o meno profonde scavano l’altopiano e scoprono fianchi di calcare bianco crema, terre cioccolato arate e assolate. La città aggrappata ai fianchi di questi cretti, costruita con la stessa pietra,  materializza strade e piazzette e scale e muraglioni dalle cui crepe, come cascate verde smeraldo, rotolano capperi in fiore e scaloni e giardini murati con fichi, mandorli, limoni, albicocchi e peschi con frutti pallidi come le stratigrafie geologiche di questa terra, come se l'antica saggezza dei suoi costruttori, avesse reso città e rifugio e vita le curve di livello del fianco carsico dell'altopiano, scavato dagli occasionali torrenti.





Tetti in coppi chiari, anch’essi color crema e biscottati, coperti da chiazze di licheni come da teli mimetici completano la totale sparizione della città nel paesaggio. I Modicani dopo aver cavato con fatica le pietre alla terra a questa terra si ridonano in una completa mimesi.
Pinete si inerpicano sui pendii più aspri e portano una natura ancestrale nello sguardo del passante. Una sola concessione al vezzo, al lusso: i balconi, moderatamente esuberanti, barocchi ma senza illusione, esibiti con leggiadria ma pudore (lontanissimi dagli esercizi di stile e dal simbolismo delle cariatidi e delle mensole spumose di Scicli) e qualche lesena e timpano chiaroscurale.



Come una spuma la città si inerpica dal fondo del ex greto del torrente, aggredisce i fianchi quasi verticali della valle e deborda sull’altopiano, qui alla Sorda è nata la nuova Modica amata dai modicani ma che ha la struttura e la vivibilità delle peggiori periferie del mondo, strade intasate, scheletri di capannoni, centri commerciali inquietanti, marciapiedi latitanti, attraversamenti pedonali inesistenti, negozi che paiono hangar in disuso, il peggio dell’iconografia della Sicilia del dopoguerra eppure ogni Modicano anela a questo paradiso di cemento e calore soffocante, da quassù un piano inclinato scivola dai 400 metri slm ai 0 metri slm di Sampieri. La struttura del territorio agricolo del passato, neanche così remoto, si legge in filigrana malgrado le asfissianti aggressioni di villette, di desolati scheletri cementizi, di ponti anabolizzati che in un caso, qualche contadino con un innato senso dell’ossimoro e dell’umorismo, ha eletto a dimora di quattro asini a nostro memento ogni qualvolta ne passiamo di sotto, di agglomerati industriali fatiscenti.
Resistono quindi i muretti a secco color crema, lunghi chilometri che quadrettano la terra punteggiata da carrubi, qualche ulivo, campi e masserie anch’esse pallide e ieratiche come in un cruciverba di cui si è, forse, persa la soluzione.



Mi chiedo come una spanna di terra appoggiata su pietra calcarea, torrefatta dal sole implacabile e dai venti salmastri abbia potuto dare da vivere per secoli ad una comunità che è stata sempre attiva e relativamente florida.
Forse con saggezza queste genti hanno saputo piegare, piegandosi, la natura qui così aspra da togliere il fiato. Nessun atto di forza palese e coercitivo ma una delicata e decisa integrazione in un ecosistema fragile; frammenti di questo dialogo sono i carrubi, grandi piante contorte con chioma semisferica, foglie piccole e coriacee di color verde scuro, i frutti sono dei grossi bacelli allungati color cioccolato. Il carrubo è una pianta paesaggio per la sua maestosa presenza, generosa e frugale come pochi alberi al mondo, i fiori danno il miele, i frutti danno cibo agli animali e agli uomini, la chioma offre ombra alle greggi e ai contadini, il legno calore, perfettamente a suo agio nei climi aridi,  schierata in quinconce come un verde esercito che marcia verso il mare. Poi serre in legno adagiate come scheletri sbiancati e scintillanti di balene spiaggiate, alternate a nuove strutture anch’esse argentee e aliene sino a raggiungere i piccoli vigneti marini con le radici nella sabbia, alberelli contorti, prefillosserici con chiome striscianti nelle buche o rampicanti sui tutori di canne, le stesse dei cannicciati messi a protezione interfilare dal vento di mare e dalla sabbia che attenuano la fatica della innaturale verticalità della vite. Non so cosa ne facciano di queste uve, commuove soltanto sapere che esistono e che qualcuno ormai ultimo incosciente difensore di una umanità che sentiva la propria finitezza e caducità, con fatica le accudisca.



Il vigneto condivide quel litorale, turismo e residence alieni permettendo, con zone umide salmastre, canneti impenetrabili, pini marittimi e la macchia mediterranea che sparge un dolce profumo di  resina che non so per quale affinità elettiva  ricorda quello dei nucatoli.
Il respiro dello Ionio, salmastro e iodato con sbuffi di spezie d’africa è ormai impossibile da ignorare, fine del viaggio siamo a Sampieri.
La fine del nostro viaggio è per alcuni, pochi e surreali come una armata di scalcinati, burberi ed irridenti pescatori, l’inizio.
Tutto il giorno curano maniacalmente piccoli gozzi in legno bianchi e azzurri che si atteggiano a pescherecci d’altura in un negozio di giocattoli.
Tessono e ritessono le reti in un balletto di mutua cooperazione in cui sono beneaccetti anche i sampieroti oramai con passaporto Svizzero o Lombardo-Veneto (qui l’italiano ricordate è una seconda lingua come in Alto Adige).



Al  tardo pomeriggio escono alla spicciolata a calare le reti che aleranno poi la mattina seguente
 I rientri dal mare sono un piccolo spettacolo di coordinato mutuo soccorso; la gente a terra spesso “lombardi” o “svizzeri” guidano a gesti il rientrante sugli scivoli lignei, poi abilmente tra la selva di cime e cavi d’acciaio e traversine afferrano una cima di alaggio che agganciano a dei verricelli elettrici o a dei trattorini agricoli con i quali vengono alati e messi in secco i gozzi, il tutto fra poche parole, molti sfottò e solchi lungo i visi che sembrano delle specie di sorrisi.
Solo un dio del mare benevolo e ilare può assisterli in questa quotidiana lotta contro i verricelli rugginosi, i trattorini spompati e recalcitranti e contro il pesce sempre più scarso; comunque sembrano sorridere quando verso le dieci del mattino, dopo il rituale della vendita del pescato, all’ombra dell’istituto delle carmelitane guardano il mare e le loro barche.
Pescare pescano, il loro pesce è ottimo ma ricordate, quando li avvicinerete che prima di comprare dovrete essere accettati da questa comunità perché qui non si vende come al mercato, si barattano sogni.
Oggi pesca grande Enzo a”siccia”, Pepi o “zingaro” e i “catanesi” sono tornati con mormore, sogliole, razze, gamberoni, seppie, altri pesci dai nomi e dall’aspetto per me sconosciuti e il re di questi mari il pesce spada, piccoli esemplari di 15, 20 kg al massimo pescati con una tecnica lunga e faticosa: il palamito galleggiante lasciato derivare con la corrente e sorvegliato tutta la notte per evitare che si ingarbugli e vanifichi una giornata di lavoro.


Come a confutare la tesi che la Sicilia è un isola la risorsa primaria è l’agricoltura, è dalla terra così nera poggiata su una roccia così bianca che come in un gioco di prestigio nascono prodotti sublimi figli dell’altopiano e di questo particolare stato dell’anima che trasferisce alle sue genti. Verso nord in direzione Frigintini a quote che raggiungono 600 metri slm imponenti masserie color crema ricordano l’estrema vocazione agricola di queste terre alte, olivi anche secolari punteggiano il territorio e danno un olio che a base 60% cultivar moresca può rientrare nella DOP Monti Iblei sottozona Frigintini, grano duro, fave piatte che hanno qualità organolettiche sublimi, così come i ceci e un po’ più a nord a 700/800 metri slm a Giarratana si produce da una cultivar unica al mondo una cipolla enorme e dolcissima da provare appassita in poco olio con il tonno rosso pescato dalle flotte di Portopalo o Marzamemi oppure mi dicono alla brace meglio se di legno di carrubo.
A Chiaramonte Gulfi paese arroccato sul fianco dell'altipiano che dalla quota di novecento metri rotola a trecento e da quale iniziano una teoria di colline di sabbie calcaree giallo brune inizia la zona degli uliveti della DOP Monti Iblei sottozona Gulfi.
Da cultivar Tonda Iblea si producono olii insuperabili per tipicità e corpo, in certe annate il sentore di  foglia di pomodoro e la struttura gustativa sono impressionanti e lo rendono quasi masticabile. 




Si producono anche vini con risultati analoghi e il re indiscusso è il Frappato con la sua aromaticità rossa e fresca (e profumi di fico nel Frappato di Cos), travolgente che in blend con il nero d’avola (calabrese) compone i vini della DOCG Cerasuolo di Vittoria.

Il Nero d'Avola quì in queste colline di sabbia crema prende sfumature di salgemma e una ferrosità stordente che il Frappato alleggerisce, ingentilisce e porta livelli di sublime.
In pianura a Vittoria a Scicli producono pomodori, meloni, “tenerumi o tenerezze”, cavolifiore viola, melanzane.
I pascoli dell’ altopiano sono il luogo di elezione di pecore e di una particolare razza bovina, ora in estinzione, rustica e frugale che è la Modicana. E’ un bovino che ricorda i graffiti preistorici, imponente con corna a lira, una livrea rosso bruna, un incedere quasi marziale; animale poliedrico che un tempo assolveva sia ai lavori nei campi sia all’allevamento per latte sia per la carne, non sopporta la stabulazione e produce poco latte di grandi qualità organolettiche dal quale tradizionalmente si producevano caciotte e provole (provola Iblea) anche fresche, ricotta, ricotta salata e soprattutto il re, il “Caciocavallo Ragusano” ora solamente Ragusano DOP detto in dialetto “scaluni” perché ricorda nella forma a parallepipedo e nel color crema i gradini in pietra calcarea, è un formaggio a pasta filata cotta con vari livelli di stagionatura. 




Tale era il valore anche simbolico di questo formaggio che si usava per ingraziarsi o sdebitarsi verso persone di peso, regalare il caciocavallo e nella  parlata corrente  “spedire il caciocavallo” significa ringraziare per grossi favori ottenuti. Da provare il tumazzo Modicano e i canestrati di pecora e se andate ad Ispica in contrada Scorsone dal sig. Rosario Floridia, ultimo strenuo selezionatore della razza, arrivate verso le 17,00 perché si può mangiare appena uscita dalla caldaia la ricotta e vi assicuro che vale il viaggio, chiedete anche se possono farvi visitare la vecchia masseria, un museo di archeologia contadina.



A Modica consiglio di passeggiare per corso Umberto e quando il languore vi assale fatevi saziare dal finger food modicano unico al mondo: la scaccia, una sorta di lasagnetta piatta ottenuta dalla quadruplice piegatura di una sfoglia fine di pasta non lievitata di grano duro, olio e acqua, condita con una variante pressochè infinita di ripieni dalla salsa di pomodoro, alla salsiccia e broccoli, agli spinaci e ricotta etc. etc. e poi rimane ancora una pletora di calzoni “pastizzu” con carne di pollo, tacchino, agnello, calamari e i Tomasini di carne vaccina e le sfoglie e gli arancini che qua fanno molto piccoli, da passeggio; in piazza Matteotti, uno slargo del corso Umberto c’è una delle migliori rosticcerie “il piccolo bar” un tuffo nell’italia degli anni cinquanta, non stupitevi se un giovane Gassman entra e ordina sette pezzi al pomodoro e cipolle.



Sicuramente avrete voglia di un dolce quindi scendete alla fine del corso in via Vittorio Veneto dalla dolceria Giunta  e fatevi allestire un vassoio di  dolcetti di pasta di mandorle “ricci, fiocchi di neve, dessert” e “nucatoli” e “impanatigghi” con ripieno di cioccolato e carne, dolcetti alle carrube, al caffè e amaretti.
Non dimenticate un sacchetto di “squisiti” (biscotti friabili e delicatissimi) o i “biscotti di sugna” o i “fringozza” enormi savoiardi montati a mano con atrezzi in legno e recipienti in terracotta smaltata (il Lemmo), per spegnere i morsi della fame pomeridiana. Se non temete l’over dose di zuccheri mangiate queste delizie sorbendo  del latte di mandorla se no un caffè o un Marsala semi secco o dolce.
Del cioccolato Modicano ormai si sa tutto: è buono, ha valenze storico-antropologiche ma la vera scoperta sarebbe ritrovare i sapori di dolci di casa come il “gelo di anguria, di limone, di gelsi” e il “bianco mangiare” di mandorle, cibo che è arrivato sino a noi dalle concezioni medico alchemiche medioevali Arabe e Salernitane quando si prescrivevano diete o pranzi completamente “bianche” per bilanciare gli umori del corpo.



Ho cenato a Modica alla Torre d’Oriente in via Posterla 29, su consiglio di un giovane cuoco che ha aperto da poco un piccolo laboratorio artigianale di produzione di pasta fresca: il “Mattarello” in via Marchesa Tedeschi  eccellenti i suoi tagliolini, speciali i suoi ravioli di pesce e quelli di ragusano. Palazzo stupendo quello che ospita la Torre d’Oriente, adagiato sul fianco ripido della valle che dal corso Umberto porta a San Giorgio e a Modica alta, si sale a piedi con svariati percorsi alternativi, stupende le due terrazze che offrono viste emozionanti su Modica e sullo splendido frutteto terrazzato del palazzo. Salvatore e Gaia Carpenzano con estrema gentilezza vi faranno mangiare molto bene in un ambiente emozionante ad un prezzo ragionevole, ottimo pesce dal tonno rosso con patate alla brace, al polpo finemente affettato, allo splendido crudo di pesce ma non sottovalutate le carni perché la sicilia guarda con sospetto il mare e dalla terra provengono delizie inimmaginabili, interessanti i dolci, buono il cannolo decomposto. Cantina interessante e con buone etichette siciliane, da loro ho bevuto il Munjebel (bianco dell’etna) di Frank Cornelissen, il Frappato 2009 di COS, il Ramie 2009 di COS.
Una sera siamo andati a cena al Duomo ristorante con stella a Ragusa Ibla dello chef Ciccio Sultano e del socio  Angelo di Stefano, siamo partiti da Modica che è a nove chilometri di distanza, consiglio di percorrere la vecchia statale n°115 che scivola lungo la valle (cava) scavata dal fiume Irminio dalla quale si vedono gli impianti petroliferi di Ragusa e si arriva direttamente a Ibla che è una città a parte e sembra la testa di una tartaruga il cui corpo è Ragusa.



Era la terza volta che ci tornavo sia a Ragusa Ibla sia da Ciccio Sultano e Angelo di Stefano  ma l’ultima volta era otto anni fa e in otto anni di cose ne sono successe sia alla città sia al Duomo sia a me.
Ripensare a questo ritorno mi ha ricordato quello che sostengono gli antropologi: ciò che  viene osservato è profondamente modificato dall’osservatore per cui il risultato è che le verità delle dinamiche socio-antropologiche sono inafferabili e inosservabili.
Ibla negli ultimi anni si è rifatta il trucco modificando la viabilità, organizzando, con efficienza i parcheggi e l’arredo urbano, rivitalizzandosi con negozi e botteghe gourmand e bar e librerie e ristorantini e turisti che sciamano per le vie (insomma i soliti non-luoghi di Augè-iana memoria). Tutto ciò però ha modificato l’ambiente, ora la città sembra un set di cinecittà invaso dalle comparse, gli abitanti già un tempo latitanti sono del tutto scomparsi, i circoli di discussione chiusi, le finestre chiuse, nessuno al balcone a prendere il fresco, la città sembra aver perso la terza dimensione è diventata un cartellone publicitario di se stessa. Ibla è morta, viva Ibla.
Forse infastidito da queste sensazioni la mia venuta al Duomo si è allineata a questa aura di finzione cinematografica, il locale è sempre molto bello ma Ciccio e Angelo, attorniati da una pletora di camerieri nerovestiti di Verghiana memoria sembrano aver perso quello slancio dei primi anni, quella allegra incoscienza della sperimentazione a favore di un copione rigido e alla page che li ha catapultati nell’olimpo dei Grandi Ristoranti Italiani estromettendoli dai piccoli ristoranti siciliani, stranieri a casa propria.
Devo ammettere per onestà che ho il sospetto di essere stato un po’ ingiusto, l’osservatore modifica l’osservato, per cui vi consiglio di andare a mangiare al Duomo perché bisogna rendere onore al coraggio di Ciccio e Angelo che caparbiamente hanno costruito negli anni uno splendido locale in un posto bellissimo, nel quale si mangia benissimo tutto ciò alla periferia del mondo conosciuto.
Entratine di pesce crudo meravigliose, pani e scacce superlativi, primi ottimi (io ho preso linguine impastate col nero di seppia  e condite con calamari e vongole), secondi ottimi (io ho preso merluzzo in due varianti fresco in trancio e mantecato alla messinese con sfoglie di pane tostato), ottimo cannolo, grande carta dei vini  con grandi ricarichi, abbiamo bevuto un grillo 2004 di Barraco e sul dolce il Marsala Superiore Oro Vigna la Miccia di Marco De Bartoli.





A chi piace leggere consiglio:
Roberto Alajmo, "L'arte di Annacarsi. Viaggio in Sicila", Bari, Laterza, 2010
AAVV, " il Ragusano. storie e paesaggi dell'arte casearia", Milano, Federico Motta editore, 1999





Senza pensare di essere esaustivo vi indico un po' di indirizzi per sfamarvi e dissetarvi ma ricordate che se direte ad un Modicano che siete andati da Giunta a comprare i Fringozza vi dirà che Di Lorenzo li fà meglio (e viceversa) e le scacce sappiate sono sempre più buone quelle di casa.



Ristorante da non perdere:
Olio:
Terraliva 
Miele:
Amodeo
Vino:
Pasticcerie:
Enoteca
Vini d’autore

Formaggi:
Dipasquale a Ragusa


Friggitorie gastronomie
Piccolo Bar: Piazza Matteotti 10, Modica (RG)
Fidone: corso Regina Elena vicino all'Hotel Failla

Macelleria e rosticceria Pitino: Var.S.S. 115 n°10, Modica (RG)






venerdì 27 luglio 2012

Piemonte Grignolino 2010, Olek Bondonio



Quando le piante fotografano il luogo.
Il luogo, a differenza dello spazio euclideo, è una parte della superficie terrestre che non equivale a nessun altra, che non può essere scambiata con nessun altra senza che tutto cambi.
Nulla è equipollente dalla terra ai microbi, dalle giaciture ai lieviti di cantina, alle tecniche, alla luce, all’aria.
I vegetali hanno una certa capacità di spostamento che li porta a doversi ambientare (sia per cause naturali, sia per opera dell’uomo) ad ambienti diversi, simili magari a quelli originari ma mai uguali (con buona pace dei tecnoriduzionisti).
Le più o meno sottili variazioni del genius loci incidono sui loro organismi che mutano e si adattano e si contaminano con l’ambiente.
E l’ambiente ne rimane contaminato in un processo di influenza bilaterale, sottile e dinamica.
Dimostrazione ne è, se ce ne fosse bisogno, questo vino.
Ottenuto da piante,  sicuramente non conosciute per il loro carattere “internazionale”, nate ed evolutesi in altri luoghi su terreni però non così dissimili e qui la mera analisi geologica segna il passo.
Ebbene il vino che si ottiene da queste turiste vegetali è parecchio differente dall’archetipo di grignolino che abbiamo nella nostra memoria olfattiva.
L’ambiente anzi meglio il terroir gli da una nuova connotazione anomala per gli amanti del varietale.
Poche spezie e tannini meno vegetali più fluidi, rotondi, frutti in secondo piano, acidità più contenuta, molta setosità e refoli di goudron e liquirizia e terziari quasi fumè.
Un  vino godibile e liscio come un ciottolo di fiume.
Forse non riconoscibile come Grignolino.
Oppure riconoscibilissimo come grignolino di Barbaresco.
L’ecosistema prende forma nel liquido idroalcolico.
E noi l’abbiamo bevuto con godimento e leggera perplessità di fronte ai misteri sottili che permeano la vita.
Bonne degustation.


Luigi

Compagni di merenda Fabrizio Gallino che ci ha fatto conoscere questo vino e DavideMarone infaticabili ricercatori di anomalie.


mercoledì 25 luglio 2012

Tre Grignolino, di N. Desenzani

Strano che in un periodo di vacanza in Corsica sia iniziata una serie di bevute di Grignolino.
Infatti laggiù, nel sud dell’isola, dove i miei genitori passano sempre più tempo e io sempre troppo poco, fra le bottiglie di mio padre ne ho scovata una di Grignolino del 2009 di Gianni Doglia di Castagnole Lanze. Uno sguardo attraverso il vetro per controllarne la torbidità, mi ha dato la piacevole sorpresa di un bel fondo vecchio stile. La conferma che si tratta di un produttore che lavora in modo molto semplice mi ha generato una sete bramosa. Anche condizionato dagli ultimi post grignolineschi del buon Frakkia e dal fascino da minore eccellente, da anarchico, da balordo, da nobile decaduto e chi più ne ha più ne metta che è ormai legato a questo sottovalutato vitigno (vedi anche i numerosi assaggi di Enofaber).


L’ho bevuto in abbondanza, freddo, alla fine di una giornata di mare, cucinando e poi mangiando e posso dire che mi è piaciuto molto. Era un 2009, e credo che un po’ di riposo gli abbia giovato. Una bottiglia da averne sempre in cantina (uso quest'espressione perché è efficace, ma io non ho la cantina!). Da bere freddo o ambiente d’inverno. Prima e durante i pasti. Meno dopo!
Si riconosce bene il varietale, anche se non eccedono le speziature pepate tipiche delle declinazioni di quella zona. Stanca davvero poco e credo costi inversamente proporzionale alla beva.
Quindi gran bella sorpresa.
Poi qualche giorno dopo, ci siamo spostati in Valsesia, ospiti degli zii di mia moglie. Lo zio è un casalese vero e beve casalese spesso e, nella cantina della casa che fu dei nonni di mia moglie, ho trovato altri Grignolino.
Dunque penso fosse destino che questo vino diventasse un protagonista di questa breve vacanza (molto enoica).
Ne ho assaggiati (bevuti) due. Quello 2009 di Massimo Crova di Sala Monferrato e quello di Castello di Uviglie di Rosignano Monferrato del 2008.


Il primo mi ha piacevolmente sorpreso perché era rifermentato. La cosa farà storcere il naso a molti, ma io l’ho apprezzata. Instabilità indizio di qualità, mi vien da dire. Un po’ più di SO2 o una filtratura avrebbero impedito il fenomeno, ma avrebbero relegato, a mio parere, il vino nell’anonimato dei millemila Grignolino monferrini. E quindi vai di grignolino rifermentato, fresco, sorprendente, semplice, buonissimo. La sera, ma ancor più il giorno dopo, in un pic-nic fastoso con le mie quattro amatissime donne. Il vino giustissimo per quell’occasione e anche qui tanta beva.


Infine Castello di Uviglie. Indubbiamente il più fine dei tre, il più etereo, ma anche il più anonimo. Per i miei gusti un vino un po’ statico e che tende a perdere personalità dopo qualche ora che la bottiglia è aperta. Ma non posso dire assolutamente che fosse cattivo, anzi, molto meglio di tanti vini da tavola che si trovano più o meno ovunque.
Quindi tre begli assaggi che mi hanno lanciato in un trip da Grignolino per scoprirlo ancor di più.
Talvolta mi capita di mettere vicino con il pensiero  questo vitigno al Pineau d’Aunis e di pensare che se venisse vinificato in stile Pascal Simonutti (di cui a breve racconterò) , torbido, ben estratto, in quasi assenza di SO2,  ne vedremmo delle belle.
Il 2010 di cascina Tavijn senza solforosa assaggiato l’anno scorso e la sua versione 2011 raccontata da Frakkia vanno secondo me in questa direzione e con successo.


lunedì 23 luglio 2012

Appunti sul "mondo del vino" di Gastrofanatico


Leggendo Professionalità vs amatorialità. Commercio vs consumo di Luigi ho buttato giù alcuni appunti.

Cosa intendiamo quando scriviamo “il mondo del vino”? Esiste forse una risposta univoca?
Poi se accanto ci mettiamo anche l’aggettivo “vero” il discorso rischia di diventare oligarchico, utilizzo a proposito questa definizione per indicare il potere di quei pochi che si arrogano il diritto di decidere cosa è vero da cosa non lo è.

Allora vediamo cosa può essere il mondo del vino: il mercato, inteso come il luogo dove i produttori incontrano – per mezzo di intermediari – i consumatori. 
Oppure l’insieme di filosofie produttive, dove la filosofia va a sposarsi con la praxis conducendo a risultati diversi. 
Ma ancora in senso ancora più largo (ma non per questo meno vero) come civiltà del vino, dove la civiltà è tanto più aperta e libera quanti più hanno le competenze per parlarne, costruendo intorno al vino tanti discorsi parziali, che si ricombinano in una realtà dinamica.

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Il vino e la terra. 
Il discorso sul vino può essere il marketing di produttori che con milioni di bottiglie (e milioni spesi in campagne pubblicitarie) invadono i mercati stranieri con vini studiati appositamente per un determinato target. Discorso leggittimo quanto si vuole, ma che inverte la direzione del vino. 
Non sono la terra e il lavoro dell’uomo a dare carattere al vino, ma questo viene aggiustato in base agli standard di gusto del target di consumatori. Del resto molto meglio di me Michel Le Gris, nel suo Dioniso crocifisso, saggio sul gusto del vino nell’era della sua produzione industriale (DeriveApprodi), ha scritto di queste cose.

Ma da dove è iniziato tutto? Proprio dalla terra. 
L’europa vinicola che si svela ai nostri occhi è anche il prodotto di una tecnica di conquista delle province durante l’Impero romano, gli impianti massicci di vigneti erano utilizzati per legare alla terra i coloni. E poi da lì in avanti la terra e il lavoro dell’uomo hanno prodotto quel panorama vasto e differente che conosciamo.

Il vino e il mercato. 
Posso scegliere di evitare di raccontare e parlare di quel vino che sa autorappresentarsi tanto bene? 
E’ legittimo pensare che in quella bottiglia, una tra centinaia di migliaia, milioni, con la stessa etichetta, non riuscirò mai a sentire il “discorso” del produttore e della sua terra? 
Questa è probabilmente una scelta politica, e la rivendico. 
Come rivendico l’idea che l’istruzione non è il vantaggio di una élite, e rivendico di poter dire la mia. 


Così il parere di un consumatore consapevole, definizione che vale a distinguerlo dal “professionista” valgono esattamente lo stesso, sul piano inclinato delle valutazioni puramente speculative. 
Poi il professionista ha un potere, quello di determinare il consumo nel mercato, potere che gli deriva da una triplice fonte, il ruolo, le sue competenze e l’asimmetria informativa, concetto quest’ultimo che consiglia prudenza a chi pensa che “il mercato siamo tutti noi”. 
Proprio per questo potere dai “professionisti” si esige – citando Spiderman – maggiore responsabilità, anche nel confronto con i consumatori consapevoli. 


Già agli albori del primo millennio vi era un acceso dibattito sull’altezza dei vigneti, Columella ci racconta che nelle Gallie questa altezza si collocava tra i 2.5 e i 4 m, e questo metodo secondo le fonti, oltre a aumentare la quantità del vino ne aumentava la qualità, rendendolo più dolce e più longevo. Catone era d’accordo e nel De agri cultura (Cap. 5, 7) scrive “Quam altissimam viniam facito”, anche Plinio scrive “Nobilia vina non nisi in arbustis gigni” (Naturalis historia, Cap. 17, 23). Di parere opposto Saserna, discendente da una famiglia di agricoltori etruschi, mentre Scrofa, un celebre agronomo romano, condivideva il metodo ma – pensate un po’ - limitatamente all’Italia. Insomma un dibattito che dopo duemila anni ci fa un po’ sorridere.
Ma è anche quel confronto, scambio e curiosità che hanno fatto crescere la civiltà del vino.



P.S.
Qualche tempo fa i giornali hanno riportato la notizia di un oceano di acqua nel sottosuolo di Titano, satellite di Saturno: La notizia, di indubbio interesse scientifico, è passata tra il disinteresse generale. E’ del tutto evidente che se invece di acqua si fosse trovato del vino, ci saremmo imbattuti in qualche civiltà aliena.

venerdì 20 luglio 2012

Vallèe d’Aoste Doc Pinot Gris 2010, Lo Triolet




Vallèe d’Aoste Doc Pinot Gris 2010, Lo Triolet di Marco Martin.
Introd (AO) a novecento metri di quota.
Vino di montagna con cultivar un po’ anomala.
Il Pinot Gris è una variazione genetica del Pinot Noir che profuma di Alsazia.
E’ vitigno precoce che bene si adatta alle condizioni climatiche montane anche se non tipicamente montano.
Ma non aspettatevi grandi freschezze, ha una innata tendenza ad accumulare zuccheri e ossidare gli acidi.
E ne viene fuori un vinone in stile Alsaziano, con fruttoni e dolcezze in attesa di divenire idrocarburi, alcool in abbondanza e morbidezze quasi eccessive.
Accenni di pietre travolti dai profumi zuccherosi e fiorosi.
Glicerinoso e rotondo sulle mucose.
Il giorno dopo.
Frutta, poi frutta, ancora frutta matura e succosa e ritorni di zucchero filato.
Leggera vena fresca a rendere godibile il vino.
Che si fa bere molto piacevolmente ma che a mio giudizio è afflitto da eccessi di tecnicismo produttivo.
Tutto quel frutto, tutto quel floreale, tutto quello zucchero e caramello.
Forse un po’ troppo.
Per me s’intende.
Bonne degustation.


Luigi

Poscritto
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mercoledì 18 luglio 2012




Oggi pubblico volentieri questo post scritto da un produttore che preferisce rimanere anonimo.
Trovo che sia una visione di ciò di cui noi chiacchieriamo, molto interessante, perché operata dall’interno, dal lato sporco del mondo del vino, quello fatto di fatica, apprensione, rischi molto più che di gioia e leggerezza.


Luglio 2012, da qualche parte in qualche ora.

La vigna è verde e rigogliosa, le abbondanti piogge primaverili hanno gonfiato il terreno e le riserve idriche sono tante, la pianta ne attinge a più non posso e la vegetazione ne beneficia.


In campagna il tempo scorre lento, i lavori adesso sono di gestione e quel che si è fatto si è fatto, gli acini ormai traslucidi sono prossimi all’invaiatura, e di tempo per pensare ne hai, anche troppo.


Settimana scorsa due cicloni hanno scosso l’enoblog come potete vedere qui e qui, in vigna ci pensi, non puoi farne a meno, e allora tanto vale mettere i pensieri su carta e dire la tua!


Nel variegato mondo del vino, di professionisti ce ne sono tanti, o pseudo tali, ma pochi sanno che quelli veri, quelli indispensabili, sono due: vignaiolo e cantiniere.


Sostiene bene Stefano Cinelli Colombini: “Da addetto ai lavori, vi assicuro che portainnesto e compagnia cantante contano parecchio, ma parecchio meno dello sconosciuto che passa la giornata a giro per la vigna e di quell’altro altrettanto sconosciuto che sta ogni santo giorno in cantina. Nessuno chiede mai di loro, ma senza quei due illustri ignoti il gran vino ve lo scordate. Alla faccia del proprietario, della sua filosofia, dell’enologo e di chi fa la botte.”, ma questa cosa sembra essere indifferente ai più, quel che conta alla fine sono il vino ed il suo prezzo!


Ma io mi chiedo, com’è possibile che gente che si ritiene professionista del vino non capisca che oggi il vino lo fanno ANCHE gli agricoltori, come non si può arrivare a capire che il vero problema sulla professionalità sta alla radice, gente che coi soldi e coi contributi pianta vigne in “luoghi noti storicamente per il mais, i girasoli o l’aria salmastra, ma non certo per le grandi bottiglie.“


Oggi il mondo del vino è pieno zeppo di persone che ci speculano, che della vigna e delle uve se ne fregano, che pagano fior di enologi perché alla fine ci pensano loro.


Utilizzano terzisti e cooperative (vere e proprie forme di schiavitù contemporanea) per la gestione delle vigne invece di assumere e investire in gente capace, che sa fare il suo lavoro, conosce il territorio e cerca di interpretarlo nel modo più corretto possibile.


Si fa tanto parlare di Francia e del modello francese, della distinzione tra récoltants e négociants, eppure in Italia per essere agricoltore è sufficiente avere una Partita Iva (così usufruisci delle agevolazioni fiscali e dei contributi), ma alla fine è gente che paga altri per gestire i vigneti, gente che alla fine compra uva e la trasforma, anzi a volte non fa neppure quello ma paga chi la trasforma per lui.


Allora, in questa assolata giornata di inizio Luglio, con la maglia sudata e le ginocchia sporche di terra (perché la terra è bassa!), penso e credo che la prima e doverosa domanda da fare ad un banco d’assaggio sia: ”ma è il tuo lavoro, unico e principale?”


venerdì 13 luglio 2012

Colfòndo, Vino Glera IGT Veneto frizzante, Casa Belfi


Opera di Maurizio Donadi che cerca nei microbi e nella vitalità biologica le risposte alla stabilità e sanità del vino.
Bella bottiglia e bella grafica, che non fa male.
Stappo e fa un botto sonoro.
Liquido opalescente di bella lucidità e riflessi vivaci.
Goloso.
Impatto agrumato di pompelmo e lieviti e fiori secchi.
Pompelmo in polpa e in buccia sia al naso e sia in bocca e forse fieno odoroso.
Asciutto e dritto e amarognolo.
Dissetante.
Sgrassante.
Sapido (mi ha ricordato il citron confit magrebino, fette di limone salate e poi messe sott’olio).
Masticabile.
Elegante senza essere estremo, direi.
Anche se è vino da spiegare ai neofiti, per la sua torbidità, per la sua secchezza.
Con focaccine cotto e bufala, ‘a morte sua.
Da tenerne sempre un paio in frigo.
Bonne degustation

Luigi

Poscritto
Campione omaggio inviatomi direttamente dal produttore.
Fa il paio con quello di Carolina Gatti.



mercoledì 11 luglio 2012

Geografia dell’anima



Paesaggio come conoscenza. 

Non so come, non so perché ma un giorno mi è capitato fra le mani un testo di Franco Farinelli e leggendolo (con estrema difficoltà a dire il vero) mi sono imbattuto in una definizione della geografia che mi ha colpito.
Si dice che la geografia “rappresenta le cose naturali secondo le loro specie e le loro famiglie” ma al contrario delle scienze che fanno capo all’economia della natura, le rappresenta “secondo il luogo della loro nascita, o i luoghi sui quali la natura le ha collocate”. Le rappresenta cioè secondo il principio di vicinanza o prossimità, l’una accanto all’altra così come davvero nella realtà si danno, cosi come la macchia mediterranea si offre come una sola organica unità al nostro sguardo. Mentre secondo il metodo di Linneo, che ancora oggi fa testo, essa si compone di essenze non soltanto distinte, ma appartenenti a specie, generi, famiglie, ordini e classi diversi…
Il problema che pone è enorme e decisivo, e riguarda in ultima analisi la ragione della differenza tra l’immagine scientifica del mondo e quella che invece ne abbiamo quando al mattino spalanchiamo la finestra, quando insomma consideriamo il mondo come se fosse un paesaggio.  Soltanto in tal senso, le cose del mondo si danno l’una accanto all’altra, coesistono nella loro unità e sono percepite nel loro complesso, prima di ogni disarticolazione e riflessione.

Foto di Ibleo
L’introduzione della cartografia scientifica e dell’ansia della restituzione grafica ha portato tutti noi a considerare i Luoghi come Spazio ma:

“Spazio è una parola che deriva dal greco Stadion. Per gli antichi greci lo stadio era l’unità di misura delle distanze, e significava dunque alla lettera un intervallo metrico lineare standard. Ne deriva che all’interno dello spazio tutte le parti sono l’un l’altra equivalenti, nel senso che sono sottomesse alla stessa astratta regola, che non tiene affatto conto delle loro differenze qualitative. Tale regola è quella rappresentata dalla scala e indica il rapporto tra le distanze lineari del disegno e quelle che esistono nella realtà. Luogo, al contrario, è una parte della superficie terrestre che non equivale a nessun altra, che non può essere scambiata con nessun altra senza che tutto cambi. Nello spazio invece ogni parte può essere sostituita da un’altra senza che nulla venga alterato, proprio come quando due cose che hanno lo stesso peso vengono spostate da un piatto all’altro della bilancia senza che l’equilibrio venga compromesso.”

Forzando il ragionamento al mondo enologico si potrebbe dire che il vino di territorio sia il paesaggio nell’accezione geografica e il vino dei vitigni sia l’interpretazione scientifico analitica dello stesso.

In realtà il paesaggio, come insieme di cose legate dalla mera prossimità vacilla per effetto della vivisezione economico-tecnica e la sua  distruzione è prossima al compimento.

Espressione di antichissimo saper fare, la policoltura mediterranea che riuniva sullo stesso campo tre piani di coltivazione, l’uno sovrapposto all’altro: quello erbaceo, quello dell’arbusto (la vite), quello dell’albero ha dato vita a sofisticate architetture campestri disegnate dalle trame dei filari.
La società, la religione, gli usi, i mercati locali disegnavano il paesaggio che ne era a sua volta immagine.


Con la smaterializzazione della realtà e delle economie e la delocalizzazione delle decisioni e dei mercati, il paesaggio policolturale (e quello rurale tout court) sparisce.


Foto Sergio Boccadutri

In realtà questo processo ha origini antiche ed è imputabile alla cartografia che ha sancito la superiorità dello spazio bidimensionale ed euclideo, misurabile e quantificabile e rappresentabile sulla complessità irriducibile a semplificazioni della Terra.
Al punto che il territorio rurale, le città sono diventate copia della cartografia e delle sue tecniche di rappresentazione.
La preminenza di strade, ferrovie, reticoli stradali, canali che squadrettano in linea retta con logica rigidamente cartesiana i luoghi non sono altro che la trasposizione sul reale dell’elaborazione teorica dei geografi e cartografi.
Un esempio sono le mappature (foriere di valori extra o terribili, quanto ingiustificati, declassamenti del valore fondiario) dei cru di Bordeaux.
Questa operazione figlia di una visione mercantile ha operato ex lege una suddivisione dei vigneti e dei luoghi del tutto innaturale, perché in natura non esistono confini, tutt’al più fasce intermedie fra luoghi diversi e non righe bianche e cancelli che determinano un fuori da un ipotetico dentro. Perché la Terra, i luoghi sono ricorsivi, unici e non isotropi.
L’isotropismo è un escamotage della rappresentazione che permette di inserire le cose del mondo all’interno di un reticolo misurabile in cui l’unica regola è la loro reciproca distanza e mai e poi mai una cosa potrà essere nell’altra. Invece è esperienza di tutti quella di trovare molluschi, insetti ma anche intere città inglobate nelle rocce, negli strati geologici.

L’ansia contemporanea della mappatura dei cru (e non solo loro), mi pare risiedere nella volontà dell’uomo contemporaneo di conoscere i luoghi non attraverso l’esperienza reale, fisica ma attraverso l’immagine cartografica dei luoghi, ritenuta oramai più affidabile della realtà (senza considerare che la fruizione della cartografia con mezzi digitali opera un’ulteriore smaterializzazione dell’esperienza).

In un commento alla pubblicazione delle mappe dei cru bordolesi il recensore (in buona fede) ha scritto: ” che (la mappa) permette di scoprire uno ad uno i vari Chateau, e capire dove si trovano nella realtà.
E’ inutile ricordare all’estensore che gli Chateau si trovano già nella realtà e non c’è di bisogno di una cartina per rendere reale la loro presenza. Tutt’al più calarli nel reticolo geografico ci permette di misurarne le dimensioni, le distanze ma nulla ci dice delle loro qualità che rimangono un atto di fede.




E il luogo ridotto a rappresentazione, perde tutti quei legami di prossimità e di unicità che lo rendevano specchio della complessità irriducibile del reale.
Un esempio sulla inanità dello spazio isotropo è l’esperienza che mi è stata raccontata da Andrea Buzio.
Voleva dividere il mosto di un vigneto in due parti uguali partendo dalla vendemmia e non dalla massa.
Ha vendemmiato metà filari, facendo attenzione a bilanciare esposizioni, presenza di viti giovani; ebbene a fine ammostatura i dati analitici gli davano due mosti completamente diversi per acidità e tenore zuccherino!

Mi chiedo se un’esperienza del genere non metta a dura prova il concetto di territorio e di cru inteso come porzione di spazio euclideo e non richieda, invece, approfondimenti più complessi.

Mi chiedo come si possa parlare ancora di terroir quando la sostenibilità e la convenienza di una piuttosto che un’altra coltura è determinata da decisioni e mercati immateriali e dispersi.
E le stesse comunità rurali hanno smarrito il loro legame naturale con i luoghi di appartenenza e il loro corredo di esperienze e legami sociali.

Mi chiedo anche come si possa ragionare scindendo l’organismo agricolo in parti, rendendo impossibile (economicamente) la sua integrazione in quanto processo unico.

Foto di Danilo Gatti

Questa perdita ha generato l’attuale paesaggio, invaso da oggetti apparentemente casuali e decontestuali in cui si è smarrito il radicamento, sostituito dalla logica della misurabilità metrica (sia dimensionale sia cartografica sia economica).
Le monocolture, anche quelle viticole, segnalano la perdita di senso (o meglio ne derivano il senso al di fuori della prossimità geografica) del paesaggio e delle società che non lo determinano più per legami di vicinanza.
L’assalto del cemento privato, delle mastodontiche cattedrali del commercio e dell’industria, delle iper-invasive reti infrastrutturali disegnano una mappa di entità che al paesaggio non appartengono come orizzonte di senso ma sono emanazioni di un mondo economico, politico, tecnico smaterializzato.

Ormai guardando i nostri luoghi non comprendiamo più nulla della nostra storia contemporanea (sempre che ci sia qualcosa da capire) il senso è remoto, forse, inarrivabile, sicuramente molto impoverito dal punto di vista etico.