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venerdì 29 giugno 2012

il mio lambrusco 09 e il mio barbera 08, Camillo Donati


Il mio Lambrusco 09 e il mio Barbera 08 di Camillo Donati.
Un sentimento di attrazione e repulsione mi coglieva con i vini di Camilo Donati.
Bevuti ma mai veramente piaciuti.
Al punto che ne avevo abbandonati alcuni in cantina.
Ebbene li ho rispolverati per portarli ad una cena con amici (non  fate gli ipocriti lo so che anche voi portate in dono le bottiglie che non vi piacciono o vi hanno deluso, mica portate le vostre chicche!).
A cena iniziata, l’amico Fabrizio stappa il Lambrusco e, come tutte le bottiglie in mio possesso, non spumeggia, neanche un po’.
Deluso lo assaggio e cambio idea subito.
Buono anzi direi buonissimo, complesso e profumatissimo che si allarga e distende nel bicchiere, inondadoci di mentuccie, timo e altre fruttosità e terrosità.
Tannino educato e forse leggero residuo zuccherino.
Barcollo.



Aprono la Barbera, questa spumeggia
Affogato all’amarena, golosissimo, inebriante con la spuma che invoglia e titilla.
Un attentato alla morigeratezza va giù glu glu e chi si ferma più.
Anche lei muta nel bicchiere come a farci notare che le era troppo stretto il mondo nella bottiglia.
Ritornano mentuccie e erbe odorose e la terra che galleggiano placide in un limbo fruttoso e latteo.
Bevevo, sorridevo e pensavo che non mi erano piaciuti perché non ero ancora pronto per berli (e loro non erano pronti a incontrarmi) e il destino ha voluto che le nostre strade corressero veloci, parallele per lungo tempo sino all’incontro inevitabile ma procrastinato lungamente, una sera, con amici, pizze e chiacchiere (quelle sempre troppe e a vanvera) in riva al Po.  
Bonne degustation


Luigi

Fabrizio Gallino, Gilberto Grigliatti, Vittorio Rusinà i miei compagni di merenda da Pomodoro e Basilico.

Vini sostanziosi per dirla alla Niccolò Desenzani.
Ho pensato che forse sia doveroso segnalare il costo dei vini che si aggira intorno ai 6,50 euro centesimo più centesimo meno.

mercoledì 27 giugno 2012

Domaine des Roches Neuves, Saumur Champigny 2010, pied franc



Secondo post breve.
Domaine des Roches Neuves, Saumur Champigny 2010,  pied franc.
L’ho scelto, e chi mi legge da tempo l’avrà capito, perché è un vino da vigneti a piede franco.
Qualche migliaio di bottiglie.
Voilà.
Ebbene, forse perché sono fissato e bevo col cervello, l’ho trovato buonissimo.
Cupo di colore e di profumi viscosi.
Terroso, untuoso, dolcemente maturo e lontanamente vegetale.
Beh, sono rimasto folgorato sulla via di Saumur.
Forse del tabacco o della corteccia umida.
Finito.
A la prochaine mes amis.
Voi cercatelo.
Io proverò a metterne un paio in cantina e aprirli a terziari pienamente comparsi.
Ma non giuro di riuscirci.
Bonne degustation

Luigi

Ops! 
Non vi ho detto che è un Cabernet Franc.

lunedì 25 giugno 2012

chinati vergano asti



Per un Torinese o un Piemontese è impossibile non avere un parente che abbia lavorato in una delle innumerevoli Fabbriche di Vermut.
Questa densità produttiva mi ha sempre incuriosito anche perché la genesi dei vini aromatizzati è affascinante e ha origine nelle profondità della dietetica e della medicina del bacino mediterraneo con incursioni nei paesi arabi, almeno dal trecento a.c. più o meno.
Da Ippocrate a Galeno a Hunayn ibn Ishaq, da Isacco il Giudeo a Abu ‘Alì ibn Sina (Avicenna), dalla Scuola Medica di Salerno a Bartolomeo Anglico.
La distillazione dell’al kohl si deve agli alchimisti arabi in particolare ad Al Kindi nel VIII° sec d.c. e giunge in Europa intorno al XII° sec d.c.

Corteccia di China Calissaia
“A volte si mettono delle spezie o delle erbe aromatiche nel vino per dargli dei sapori e dei profumi artificiali. Si ottiene così il saugé (vino alla salvia), o il rosé (vino alla rosa), o il giroflè (vino ai chiodi di garofano), o il claré o anche l’ypocras. Tali vini sono eccellenti da bere come farmaci perché le erbe e le spezie conferiscono loro una grande virtù e gli impediscono di guastarsi. Essi sono gradevoli al gusto e allo stomaco, puliscono il sangue e purificano le membra e le vene.” De proprietatibus rerum, Bartolomeo Anglico, 1483.

Ingombranti retaggi di una cultura medica antica, multidisciplinare, olistica con derive magico-alchemiche, i vini aromatizzati hanno infilzato le epoche, sfruttando ampiamente le spezie provenienti dal nuovo mondo  e sono arrivati sino ad oggi (persino la coca cola nasce da un vino bordolese aromatizzato alla coca, ahimè), sia pure banalizzati e relegati al consumo distratto e quantitativo.

Mauro Vergano
MauroVergano in quel di Asti, con laurea in chimica, un master in enologia alla stazione sperimentale di Asti e una parentela pesante (è nipote di Cocchi) ha sempre vissuto la passione per gli aromatizzati e i profumi di China Calissaia hanno segnato il suo dna (quello non ricombinante).
Per cui ormai in pensione nel 2003 ha deciso, dopo anni di esperienze amatoriali, di impegnarsi nella produzione artigianale di chinati e aromatizzati.
Ha recuperato, unico a farlo, il blend originario del Vermut bianco, composto da moscato secco e vino bianco non aromatico.
Ha fatto un’ulteriore step (consentitemi l’anglismo) verso l’eccellenza e i due vini utilizzati sono di grande qualità, il moscato è quello di Gianluigi Bera (fatto fermentare sino a secco) e il bianco è il cortese di Cascina degli Ulivi e nell’Americano (la ricetta originale è di Giulio Cocchi) lo ottiene invece che da vino bianco, dal Grignolino e utilizza quello di Nadia Verrua e talvolta quello di Durando e i risultati sono lì nel bicchiere che vi aspettano.

Estratto per il Nebbiolo Chinato
Abbiamo parlato per ore di spezie e delle loro sfumature organolettiche per cui in ogni vino la miscellanea è piuttosto complessa e ricca:
usa la China che dalla Contessa de Chinchon è stata importata nel 19° secolo in Europa dal Sud America, Cinchona Calisaya (china calissaia), Cinchona Succirubra (china rossa), Cinchona Ledgeriana (china gialla).
L’Assenzio (Artemisia Absinthium) maggiore, gentile e pantico.
I fiori di Genzianella, le radici di Genziana, l’Achillea montana, l’Origano di Creta, l’Origano Officinalis, il Timo Serpillo, la Santoreggia.
Le scorze di Arancia dolce e amara, le scorze di Chinotto.
Abbiamo discettato di Alcool e della differenza organolettica fra quello di grano e quello di melassa di barbabietola.


Sull’Alcool si è aperto un lungo discorso di accise (8,001 euro al litro) e di infiniti balzelli burocratici e formalità da espletare e di controlli da parte dell’ufficio accise. Alla fine ne è venuto fuori che l’imposizione sui Vermut è di 0,651 euro/litro ma poiché la quantità utilizzata è del 5% per litro di prodotto l’accisa finale è pari a 13,20 euro per ogni litro di alcool utilizzato.

Dalle spezie in quantità e assemblaggi variabili per ogni tipologia ottiene degli estratti alcolici (venti giorni di macerazione) che poi diluisce con i vini e zucchera (glucosio e fruttosio) sino ad un grado alcool di 16% in volume.

La sua produzione che definire artigianale suona come un eufemismo è di settemila bottiglie annue per lo più vendute all’estero.
Da quando l’ho scoperto non riesco ad iniziare un pasto senza il Vermut o l’Americano e non riesco a mangiare i formaggi erborinati senza il Lulì (moscato chinato).

Il Vermut bianco aromatico e officinale di timo e origano e assenzio.


L’Americano leggermente tannico, agrumato, officinale e amarostico


Il Lulì è un moscato chinato dai profumi travolgenti, agrumato e un amarostico sublime.



Il Nebbiolo chinato un classico.


L’Elisir China l’unico infuso in produzione.

Bonne degustation

Luigi








venerdì 22 giugno 2012

Champagne TH&V Demarne-Frison, Blanc de Blanc, Brut Nature




Post breve.
Come la durata della bottiglia.
Champagne TH&V Demarne-Frison, Blanc de Blanc, Brut Nature.
Sciardonnè e basta.
Va giù veloce ma ricco di sostanza con memorie di borgogna.
Dall’Aube un vino carnoso e dissetante.
Freschezza e lieve maturità corrono come binari bagnati dalla pioggia.
Finito.
Anche il post.
Salù cucù et bonne degù.

Luigi 

mercoledì 20 giugno 2012

Bevibili consistenze, di Niccolò Desenzani

Qualche volta si parla di vino alimento. Oggi quest’espressione può sembrare un poco strana, ma fino a non tanti anni fa, nella retribuzione dei contadini spesso era esplicitata la quantità annua di vino spettante. E non perché questo fosse nella categoria dei bonus superflui, ma perché il vino era considerato un ingrediente necessario della dieta alla stessa stregua del pane.
Secondo me però.
Vino alimento non vuol dire necessariamente e solo che si intende come fonte primaria di nutrimento, ma che si presenta per sapore, consistenza, tessitura e digeribilità vicino al cibo.
Credo che un vino per chiamarsi alimento dovrebbe essere tendenzialmente non filtrato, di consistenza media o spessa, avere o dolcezza o rotondità o sapidità o umami marcate o, talvolta, anche una nota amarognola, e una certa viscosità.
In poche parole penso a qualcosa di sostanzioso.
Spesso i vini rifermentati in bottiglia hanno una struttura sostanziosa. In generale la presenza di fecce e lieviti aiuta a mantenere il liquido sostanzioso e la spuma può alleggerire quest’effetto.
Lo stesso vino privato del sedimento, con remuage e sboccatura per esempio, restituisce un liquido che difficilmente si mantiene sostanzioso.
Sono più rari i vini bianchi sostanziosi, ma non mancano esempi anche lì.


Se diluiamo un bicchiere di latte poco alla volta, c’è un momento in cui il liquido non lo percepiamo più come sostanzioso, ma come bevanda e basta, come l’acqua.
La digeribilità è un concetto legato ai cibi o ai liquidi sostanziosi. Un vino non sostanzioso che si beve bene lo definirei più bevibile che digeribile. E non è detto che un vino bevanda non impegni lo stomaco per motivi legati all’aggressività dei suoi sapori e composti, quali acidità, tannini o alcool.
Un vino ad alta bevibilità che non sia sostanzioso e nemmeno stanchi deve avere eccezionali caratteristiche di golosità, di freschezza. A volte salva il tutto una certa cremosità, ma qui è di nuovo un richiamo alla sostanziosità!
In generale la spuma è un’espediente che semplifica abbastanza la beva dei vini sostanziosi e può rivelarsi invece impegnativa laddove manchi sostanza accentuando le durezze e gli aspetti minerali.
Ma lì secondo me è anche questione di gusti.
Per me è raro trovare spumanti limpidi di cui berrei volentieri una bottiglia intera… 

PS Si è cinguettato di recente a proposito degli spumanti di Casa Caterina, di cui ho assaggiato un 60 mesi. Il gusto di questi eccellenti prodotti sembra essere giocato sulla magrezza e l’ossidazione e qualcuno fatica un po’ a berli. Forse che manchino un po’ di freschezza o di golosità o di cremosità…?
Le osservazioni di questo post, incomplete e forse sconclusionate, vorrebbero essere una traccia per costruire una specie di sintassi della bevibilità, che includa anche elementi tattili e di tessitura, e forse per evidenziare come codesta sia spesso molto soggettiva.  
Che ne pensate? 
Niccolò Desenzani

lunedì 18 giugno 2012

grignolino 2011 Cascina Tavijn zero solfiti aggiunti



Nadia Verrua lo fa uscire dalla cantina come vino rosso con tappo a corona.
Con un aspetto da vino per autoconsumo e venduto solamente all’osteria di paese e, forse, a qualche fortunato visitatore in cantina.
Quindi intrigantissimo per me che adoro l’estetica Wabi-sabi.
Il vino in questione mi è stato regalato dai ragazzi del Ristorante Bandini di Portacomaro (l’osteria di paese, appunto, vicinissima a Cascina Tavijn).
E qui devo fare un inciso:
chiunque si trovasse ad Asti, consiglio una deviazione a Portacomaro per un pranzo o cena chez Bandini, si mangia molto bene, con mano gentile ma ferma trasformano materie prima stratosferiche.
Per il vostro godimento.
Ho mangiato gli agnolotti monferrini più buoni degli ultimi anni e delle carni sia crude sia cotte spettacolari (un tempo questa zona del Monferrato era famosa per la qualità delle carni, ahimè un tempo…ora è le deluge), acciughe al verde da commozione.
Carta dei vini molto interessante e con proposte di vini del nord monferrato (Rive  Gauche del Tanaro) molto intriganti.
Come sia andata non ricordo più, insomma acquisto un paio di bottiglie dopo il pranzo e mi ritrovo in mano questa bottiglia come bonus.
La metto in frigo (non so se ho fatto bene) ero ossessionato dal fatto che senza solforosa fosse più fragile.
E poi il caso ha voluto che aspettassi due mesi prima di berla e nella testa avevo le parole di Pietro Vergano che mi dicevano bevilo, bevilo subito, non aspettare.
Tlac aperta con semplicità e leggero suono metallico.
Ha un bel color rubino e soprattutto una brillantezza e dei riflessi vividi molto belli.
Profumi pulitissimi e intensi, molto grignoleggianti.
Pepe e melograno e leggero vegetale (come quello delle pellicine del frutto) e altre dolcezze fruttate e io ci sento sempre un che di garofano o viola.
Grigna sulle mucose (una sorta di tannicità pepato-vegetale-amarostica molto tipica del grignolino e direi molto sfiziosa).
E rilascia tutto il pepe, le spezie e il melograno con decisione.
Un concentrato di speziatura, frutto, tannino, linfa, acidità, lieve dolcezza che è un unicum di grande eleganza e bevibilità.
L’assenza di solfiti aggiunti non mi pare abbia pregiudicato la freschezza e la vivacità espressiva del vino.
Glu glu va giu.
Bonne degustation

Luigi

Attezione è un vin de soif che può dare assoif-azione.
E non dite che non siete stati avvertiti!
Non fatevi mancare il Ruchè e la Barbera.


venerdì 15 giugno 2012

Mulini a vento, di Niccolò Desenzani


Scusate, ma voi pensate che l'unica modalità per la critica enologica sia partire con un canovaccio tecnico e applicarlo migliaia di volte?
Pensate che sia l'unico modo di educare il gusto?
Credete che i parametri di piacevolezza siano immutabili e che degustare sia applicare delle regole indistintamente a qualunque cosa capiti a tiro dei vostri nasi e delle vostre bocche?
Siete convinti che i vostri gusti non siano il prodotto delle vostre ricerche, di un’educazione, delle vostre attitudini e preferenze, delle fascinazioni che avete subito, del vostro desiderio di esprimere un gusto che in qualche modo vi rappresenti?
Che un bravo degustatore sia solo uno con più esperienza e capacità di applicare sistemi di valutazione assoluti?
Siete convinti che non potete commettere sbagli clamorosi?
Se scopriste di aver dato alla cieca un giudizio positivo a un vino sintetico costruito in laboratorio le vostre coscienze non ne verrebbero minimamente scalfite e accettereste di iniziare a bere quella tipologia? O siete convinti che nessuno riuscirà mai a fregarvi?
Vi ponete delle domande sui trattamenti e processi subiti dai cibi che mangiate?
Non vi è mai capitato di aver comprato prodotti solo perché sapevate che erano fatti in modo più etico, ecologico, biologico…?
E non avete magari realizzato che un frutto colto da una pianta potesse essere incomparabilmente più buono della stessa tipologia comprata in negozio nonostante presentasse dei “difetti” che l’avrebbero reso inidoneo alla vendita?

Niccolò Desenzani 

mercoledì 13 giugno 2012

Tertre Roteboeuf Saint Emilion GC 1997 di Gastrofanatico





Giugno 2009.
Percorrendo una delle tante strade che delimitano i vigneti di Saint-Emilion, poco dopo una macchia di alberi, mio padre decide istintivamente di voltare sulla sinistra. L'asfalto diventa quasi uno sterrato, a sinistra la vigna, a destra la vigna. Continuiamo sulla strada per un centinaio di metri, poi il manto si fa ancora più sconnesso, e mio padre ingrana la retromarcia.
Dopo una ventina di metri frena bruscamente.
La pietra sta lì, come fosse stata lì da sempre, un ceppo ben piantato nella terra con una scritta rossa che la ferisce: "Tertre Roteboeuf".


E dietro quella semplice e dura materia, la vigna spezzata da un viottolo appena scosceso. Dopo la vigna una modesta costruzione, su due livelli in pietra con tegole rosse sul tetto. E tutt'attorno ancora la vigna. Non siamo fortunati. Non c'è nessuno. Non incontreremo chi ha costruito quel vino che un caro amico ci ha regalato alcuni anni prima.


Luglio 2011. Una tranquilla sera palermitana, a tre giorni da un esame importante. Cena in famiglia con un amico. Tiro fuori la bottiglia la mattina presto. La lascio al buio in verticale per tutta la giornata. Verso le 18 la apro. Prima tolgo delicatamente la parte superiore della capsula, quindi con delicatezza inizio ad avvitare il tire-bouchon nel tappo. Entra a meraviglia, resistenza moderata, il tappo non ha perso elasticità. Appoggio la leva del cavatappi sul bordo e lentamente estraggo. L'esplosione di profumi, tappo perfetto, poi nulla. Lascio riposare per due ore.

Arriva l'ora del roast-beef della mamma e verso il vino nei bicchieri. Questo bordeaux, in formazione classica Merlot, Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon, dimostra maturità, sebbene si tratti di una maturità appena raggiunta e che può evolvere ancora. Sensazioni e profumi dolci, leggermente balsamici e poi i sapori della confettura di frutta rossa, e ancora un accenno di frutti di bosco e cioccolato.
Proprio come è modesta la casa dove è nato, quella costruizione immersa tra le vigne, così il corpo si propone senza alcuna pomposità, con un'eleganza tutta contadina piena di consapevolezza e sobrietà. Sorprende, come sorprende scoprire la tenuta in mezzo alle vigne, una bella sensazione tattile e di freschezza. Dopo il primi sorsi diventa un allegro e interessante compagno che ci affianca per tutta la serata. Quando si commiata lascia un segno di sé nel bicchiere, e tu sorridi, perché lo hai conosciuto.

Voglio degustarlo ancora nei prossimi anni, è un vino appena maggiorenne sulla buona via dell'equilibrio e della complessità. Ma voglio anche tornare su quella strada perduta tra i vigneti e percorrere il viottolo che, dalla pietra piantata nella terra, conduce fino alla cantina.


P.S.
Qualche giorno fa, col il curioso e saggio Tirebouchon abbiamo scambiato due tweet sull'importanza di bere vini - e non tutti i vini se lo possono permettere - che hanno raggiunto una maturità in bottiglia, che hanno avuto gli anni per evolversi come tutte le cose vive. Purtroppo il mercato non asseconda questa idea, sbilanciato com'è nel "produci e consuma", così come pochi non hanno la pazienza e le possibilità di conservare correttamente una bottiglia. Ma è proprio bere e stupirsi di una vecchia bottiglia, una delle più belle esperienze degli amanti del vino.

Terte Roteboeuf Saint Emilion GC 1997
bottiglia 75 cl. regalata da un amico.

martedì 12 giugno 2012

Perda Rubia rosso classico 2002





Canonau in purezza ottenuto da vigneti a piede franco nella regione dell’Ogliastra.
In realtà il piede franco in Sardegna non è una rarità e permangono moltissime vigne prefillosseriche.
Solo che per gli impianti nuovi, i vignaioli non si fidano e utilizzano barbatelle innestate.
Invece nell’azienda Perda Rubia, visti i trascorsi da vivaisti, continuano a propagare le loro piante facendo selezione massale dai vigneti di proprietà e ostinatamente le piantano senza piede americano.

Premettendo che non sono né agronomo né ampelografo e che quindi la mia non è una analisi scientifica ma solamente pensieri in libertà.

Ebbene, teoricamente, il piede franco dovrebbe riportare le uve e poi il vino alla espressione originaria della vite europea liberata dai problemi di compatibilità vascolare con il portainnesto e ripristina il naturale rapporto fra apparato radicale e fogliare.
Solitamente sono viti più longeve, con minor vigoria, meno produttive, forse meglio integrate con il terreno.
L’apparato radicale europeo, ad esempio, è basofilo e ha buona compatibilità con il calcare anche attivo che si trova solitamente nei terreni della maggior parte dei vigneti europei (con alcune inevitabili eccezioni di terreni a reazione sub acida).

Nel caso di Perda Rubia, l’integrità fisica e la propagazione in situ delle piante ha negli anni, per effetto combinato del consorzio microbico e delle condizioni climatiche locali, determinato dei fenotipi di Canonau unici e fortemente territorializzati.
Inoltre l’allevamento ad alberello dei vigneti, simulando la condizione selvatica, amplifica la “naturalità” della pianta e la porta ad una completa fusione col pedo-clima.

Dagli anni cinquanta le uve sono vinificate in cemento con un procedimento di fermentazione frazionata e poi affinano in botti grandi di quercia per tre anni.
E producono un vino di  terroir perché il terroir è uno spazio geografico delimitato dove una comunità umana ha costruito, nel corso della storia, un sapere intellettuale collettivo di produzione, fondato su un sistema d’interazioni tra un ambiente fisico e biologico ed un insieme di fattori umani, dentro al quale gli itinerari socio-tecnici messi in gioco rivelano un’originalità, conferiscono una tipicità e generano una reputazione, per un prodotto originario di questo terroir.

Il vino vi chiederete, dopo tutte queste parole, com’è?
E’, come deve essere il Canonau, scarico di colore e tendente all’aranciato.
E’ vino di estrema eleganza e potenza controllata.
Terziario e fumè, con la macchia mediterranea che spinge come un ciclista gregario in fuga.
Qualche ricordo di mora matura.
Su un corpo che, malgrado i quindici volumi alcolici, è piacevolmente fluido e scorrevole.
Consigliato.
Bonne degustation

Luigi

venerdì 8 giugno 2012

myrto 2009 elisabetta foradori



Elisabetta Foradori Myrto, vigneti delle dolomiti Igt 2009.
Sauvignon (?) e Incrocio Manzoni.
Naso zuccheroso e affumicato di caramello.
Camomilla e orzo.
Forse un po’ fiacco di profumi.
Ma qui si apre il problema delle temperature di servizio e questi vini mal tollerano il freddo, si anestetizzano nei profumi e bisogna aspettare che si riscaldino.
Saporito, adagiato su un fondo amarognolo e salato.
Fresco ma di una freschezza che è l’incontro fra l’ossidazione e la concentrazione della materia (Niccolò Desenzani).
Ossidazione che potrebbe presagire evoluzioni verso idrocarburi fossili.
Giovane ancora.
Masticabile.
Bonne degustation.



Luigi


mercoledì 6 giugno 2012

non voglio più sentir parlare di vini bio e biodinamici!

Non mi interessa parlare solo di vini in un momento in cui si rende necessario un ripensamento profondo dell’agricoltura in generale e degli alimenti in particolare.

Giusto Giovannetti (microbiologo) , incontrato per caso ad enodissidenze, mi diceva che a causa delle pratiche agricole contemporanee c’è un netto decadimento della carica microbiologica dei terreni e quindi nei prodotti agricoli e negli alimenti.

Non un mero problema di qualità organolettiche ma di interazione complessa fra vegetali e consorzio microbico che è praticamente identico, mi faceva notare, a quello del nostro intestino tenue.



E come con le piante, il consorzio interagisce con il nostro organismo.
Ognuno di noi ha circa due chili di microrganismi annidati nel corpo (e in ogni grammo ce ne sono centomilioni di specie diverse) che è una struttura aperta e ha sviluppato con loro, in centinaia di migliaia di anni, un rapporto simbiotico (microbioma umano).

Molti di questi transitano solamente nel nostro intestino per cui si parla di turismo microbico.
E non si tratta di un turismo di rapina ma di un complesso rapporto di interazione con i nostri geni (epigenetica).
Così come i vegetali prodotti in terreni ad elevata vitalità microbiologica sono più sani e accumulano sino al trenta percento in più di composti antiossidanti per effetto dell’interferenza dei microbi con il Dna non codificante  delle piante, il microbioma umano (dinamico) svolge una azione simile determinando in “affiancamento” al genoma umano (statico) una interazione complessa con l’ambiente e i suoi stimoli.


Tanto che alcune patologie umane e analogamente anche alcune vegetali sembrerebbero causate non tanto da invasioni di specifici patogeni ma da scompensi nelle dinamiche o nella composizione del microbioma.

Si ipotizza un legame fra quest’ultimo (quindi anche microbi turisti intestinali) e malattie come asma, obesità, infiammazioni croniche, diabete.
Semplificando si può dire che gli alimenti non apportano solamente macro-elementi nutritivi ma, sempre che la carica microbica sia qualitativamente e quantitativamente significativa, hanno anche una funzione nutraceutica e epigenetica.

Il processo di elevata meccanizzazione, la retorica igienico-sanitaria, la tecnologia alimentare e l’utilizzo di prodotti tossici per funghi e microbi (concimi minerali, pesticidi, diserbanti e ahimè i prodotti rameici) hanno compromesso la quantità e la qualità del consorzio presente nei suoli agricoli e quindi in cascata nei prodotti ortofrutticoli, nei prodotti caseari, nelle carni, nel pane.

Questo sarebbe, forse, tollerabile se la produzione agricola avesse debellato la fame nel mondo.
Invece tutto ciò ha solo svuotato le campagne di forza lavoro, distrutto comunità, pratiche agricole e silvo pastorali, paesaggi mercificando il suolo.

Oggi sembrebbe pure che i prodotti agricoli sanitizzati da queste pratiche e le produzioni di alimenti industriali abbiano effetti deleteri sulla salute umana (hygiene hypothesis).


Urge un ripensamento profondo dell’agricoltura e tutte le polemiche e/o infatuazioni dei vigneti Borgognoni biodinamici arati dai cavalli, irrorati di preparato 500 e 501 mi fanno sorridere e imbestialire perché tra poco l’unico alimento (sempre che un Borgogna a 200,00 euro la bottiglia possa definirsi tale) con una qualche vita sarà il vino (in realtà solo qualche vino di nicchia), il resto saranno cadaveri, eduli ma cadaveri.

Bisogna ricominciare dalla terra.

Bisogna ripensare l’agronomia, sviluppare o riutilizzare tecniche di coltura che favoriscano il recupero sostanziale e stabile della vitalità del terreno e dei prodotti.

Bisogna che l’agricoltura riassorba occupazione con attività ad alta intensità di lavoro.

Bisogna impedire il latifondo agro-industriale e promuovere aziende agricole a ciclo chiuso che comprendano il prato e il pascolo.

Bisogna ripensare alla produzione di quantità come sommatoria di produzioni diffuse.

Bisogna aumentare il valore all’origine del prodotto, ripensando la filiera distributiva, operando una disintermediazione o riducendo drasticamente i guadagni intermedi a discapito dei produttori con modalità da concertare (qui mi permetto un piccolo inciso: i pomodorini prodotti a Vittoria (RG) sono venduti alla fonte a 0,15 euro al chilo, a 0,25 i bio, a Torino nei mercati sono rivenduti a 4,00/6,00 euro, nei negozi 6,00/9,00 euro).

Bisogna ripensare al paesaggio agricolo non come ad una cartolina patinata ma come espressione fisica di un saper fare agricolo-economico di una comunità viva e vitale.

Bisogna smettere di dissipare il territorio affascinati dalla logica del movimento e della raggiungibilità fisica.

Bisogna ricominciare a parlare di contadini e smetterla di parlare di aziende agricole e imprenditori agricoli.

lunedì 4 giugno 2012

south of nowhere








Torino.
Metti una sera nella sede di una blasonata associazione enoica, una degustazione, un relatore, un’affermazione perentoria che mi ha lasciato senza fiato.Tema della serata gli (la) Champagne raccontata ad un uditorio di neofiti.
Banalità assortite e alcune imprecisioni sciorinate con molta non chalance, sino al momento in cui compare una cartina dell’Europa con le temperature medie.


Il relatore a quel punto dice con grande prosopopea che secondo gli estensori della cartina e lui medesimo il vino nei territori in giallo (tutto il Portogallo, Spagna, il sud della Francia, l’Italia del centro sud) non sono veri Vini, perché, a suo dire, solo il freddo e la conseguente maggior difficoltà di maturazione influenza in maniera  decisiva la composizione chimico-qualitativa dei mosti.
Così al volo, con il cervello in stand by e con un rigurgito campanilista, si potrebbe essere tentati di dargli ragione.


Però ripensando che il parallelo freddo e vite è una semplificazione che rasenta l’idiozia, è montato in me un profondo risentimento e fastidio nei confronti di chi per statuto dovrebbe promuovere la conoscenza, il consumo del vino e delle pratiche agricole ad esso legate lavorando sulla formazione di nuovi appassionati e professionisti.
Ignorare che nell’equazione pedologia-altimetria-esposizione-vitigno-uomo-clima le variabili sono tantissime e banalizzare con clima-vitigno è un comportamento altezzoso e criminale.
Sentire sempre il mesto rintocco delle proprie campane di paese e guardarsi l’ombelico come fosse il centro del creato, poi, è segno di un pensiero meschino, chiuso e reazionario.


Il relatore avrà voluto arringare le folle impreparate con facili battute ad effetto però l’amaro in bocca mi è rimasto.
Il mio pensiero è andato alla cristallina espressione di certi Verdicchio, al Vermentino Toscano, Ligure e Sardo, al Fiano d’Avellino, al Greco di Tufo, all’Aglianico, al Cirò, ai Nerelli Etnei e di Faro, ai Cannonau e la lista potrebbe continuare molto più lunga.
Ignorare l’adattamento delle cultivar autoctone al calore, alla luce, all’aridità combinata con altimetrie, esposizioni e l’influenza di climi molto variabili nel nostro paese lo trovo prossimo al delirio e molto poco pedagogico.


Per risciacquarmi la bocca dall’amaro ho preso dalla cantina un vino della Sicilia insulare, vigneti di Malvasia delle Lipari, Rucignola, Minnilottina su basalti vulcanici sferzati dai venti salmastri e asfissiati dal volano termico del mare.
Léne 2009 Igt Salina Bianco di Salvatore d’Amico.
Bevuto come contrappasso alle sciocchezze poco prima sentite e che come lama mi erano penetrate in profondità.
Alcool 12,5% Vol (così per sfatare i miti dei vinoni alcoolici).
Colore vivace e tutt’altro che decadente.
Con profumi sulfurei e affumicati e minerali.
Vino marino e orizzontale con puntate saline e lieve rasposità.
Non cercate il varietale.
Cercate la terra, il mare, l’uomo.
Figlio del salmastro.
In bocca è snello con amandorlato.
Vino esile ed elegante.
Glu glu è andato giù
Per ricordare che ci sono molti vini  “a sud di nessun nord” (cit Jacopo Cossater)


Luigi


Da bere ascoltando:


Vinicio Capossela “le Sirene” dall’album “Marinai Profeti e Balene”

venerdì 1 giugno 2012

valter loverier alias LoverBeer birraio a marentino (to)


Valter Loverier

Con una certa inquietudine sono andato con Vittorio Rusinà a trovare Valter Loverier nel suo birrificio.
Birrificio, ho pensato:
metà birra metà opificio.

Un luogo in cui una materia prima (e qualche semilavorato) viene trasformata in impianti luccicanti di inox e frigoriferi e circuiti isobarici.
Malto d’orzo e di frumento, orzo e frumento non maltati e acqua e dosi omeopatiche di luppolo e spezie e zucchero e lieviti.

La birra, per chi come me arriva dal mondo del vino è un liquido che intuisco antico ma che ha prestato, nell’epoca della riproducibilità tecnica, il fianco ai processi produttivi semplificati e uniformanti.



Ebbene da Valter Loverier, a parte qualche luccichio d’inox, sembra di essere in un antro alchemico e non in un opificio, ci accoglie elegante, compassato, dannatamente understatement come solo certi piemontesi sanno essere.
Il mastro birraio di Marentino (TO) devolve la sua lucida follia esclusivamente alla produzione delle birre.
Così comincia a spiegare ed è una enciclopedia brassicola, io non riuscivo a stargli dietro e muovevo la testa e sorridevo come un ebete (la mia condizione normale direte voi…).

Acqua e malto poi prima cotta, bollitura, alta fermentazione, affinamento.
Semplice e lineare.
Parrebbe.



Poi scopri ascoltandolo che l’apparente semplicità del fare diventa un mirabolante coacervo di variabili produttive.
Intanto la vasca della prima cottura è stata fatta su suo progetto perché quelle standard non lo soddisfavano. Comincia a raccontare i vari intrecci produttivi dai malti più o meno tostati ai cereali crudi (che aumentano l’acidità del la birra), dalle loro proporzioni alla temperatura della prima cotta, dalle spezie ai lieviti, dagli affinamenti differenziali all’aggiunta di mosti d’uva, alla frutta, alla seconda fermentazione lattica, al caramello.

Una babele di possibilità, di intrecci fra fermentini in inox o troncoconici in legno, fermentazioni spontanee e inoculi di saccaromices, di lactobacillus, di brettanomices, barrique per l’affinamento, mosti d’uva, frutta, caffè, caramello.



Il vino è territorio, la birra è sogno, avevo scritto tempo fa.
Ma che sogno è un incubo!
Il sogno è che da questa complessità escano dei prodotti affascinanti e ammalianti.

Valter Loverier fa la birra a Marentino con gli occhi e il pensiero rivolti al mondo brassicolo Belga e le loro birre artigianali ad alta acidità (Lambic, Gueze, Oud Bruin, Kriek) fermentate spontaneamente, affinate in legno, vinose, ossidate, brettate, amarostiche, scontrose, talvolta ingentilite dalla frutta.



A leggere in tralice sono birre, quelle di Valter e quelle Belghe, di territorio o comunque che non disdegnano affidarsi parzialmente alle variabili locali (lieviti spontanei, frutta locale, mosto d’uva).
Così, seguendo ragionamenti e ricerche storico-filologiche, in queste birre rientra il mosto della Barbera ( la indiscutibile simbolo enologico del Piemonte), del Freisa (indiscutibile simbolo enologico delle colline torinesi) e le prugne damaschine dette “ramassin” della Valle Bronda piccolissime e dolcissime (presidio Slow Food).
Sia sogno o territorio non saprei comunque queste birre sono ricche, complesse e saporite,
levigate dall’acidità esuberante che galleggia su corpi amarostici e rinfrescanti.



Madamin molto fresca, agrumata e leggermente vinosa e lievemente amaricante, con ritorni affumicati.

BeerBera con mosto di barbera a fermentazione spontanea, vinosa e fruttosa, complessa, leggero tannino, magra e scattante.

Beerbrugna un vero cavallo di razza, aromatica con scivoloni zenzerati, croccante di frutto con dolcezze in bilanciamento all’acidità  mentre la bevevo pensavo che l’avrei accompagnata con salmone affumicato e pane nero e burro.


Dama Bruna una Oud Bruine, con agrumi amari e sentori iodati di ossidazione quasi farmaceutici, potenti e invasivi, radice di genziana, acidità altrettanto marcata, caramello finale.

Marchè’l Re è scura come la notte, intensamente iodata da refoli ossidativi e di torrefazione, un misto di caffè crudo e torrefatto, cacao amaro, buccia d’arancia e radici amare di genziana e dolcezze di caramello acidulato.



Bonne degustation

Luigi


PS
Le etichette, ecco! solo quelle, proprio non mi piacciono, d’altronde la perfezione non è di questo mondo.
Per ripassare il concetto di perfezione leggerei questo post di N.Desenzani.